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XV: Io e l'ombra mia

Mi è avvenuto più volte, svegliandomi nel cuor della notte (la notte, in questo caso, non dimostra veramente d'aver cuore), mi è avvenuto di provare al bujo, nel silenzio, una strana meraviglia, uno strano impaccio al ricordo di qualche cosa fatta durante il giorno, alla luce, senz'abbadarci; e ho domandato allora a me stesso se, a determinar le nostre azioni, non concorrano anche i colori, la vista delle cose circostanti, il vario frastuono della vita. Ma sì, senza dubbio; e chi sa quant'altre cose! Non viviamo noi, secondo il signor Anselmo, in relazione con l'universo? Ora sta a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa commettere, di cui poi chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra, tirata da forze esterne, abbagliata da una luce che è fuor di lei. E, all'incontro, quante deliberazioni prese, quanti disegni architettati, quanti espedienti macchinati durante la notte non appajono poi vani e non crollano e non sfumano alla luce del giorno? Com'altro è il giorno, altro la notte, così forse una cosa siamo noi di giorno, altra di notte: miserabilissima cosa, ahimè, così di notte come di giorno. So che, aprendo dopo quaranta giorni le finestre della mia camera, io non provai alcuna gioja nel riveder la luce. Il ricordo di ciò che avevo fatto in quei giorni al bujo me la offuscò orribilmente. Tutte le ragioni e le scuse e le persuasioni che in quel bujo avevano avuto il loro peso e il loro valore, non ne ebbero più alcuno, appena spalancate le finestre, o ne ebbero un altro al tutto opposto. E invano quel povero me che per tanto tempo se n'era stato con le finestre chiuse e aveva fatto di tutto per alleviarsi la noja smaniosa della prigionia, ora - timido come un cane bastonato - andava appresso a quell'altro me che aveva aperte le finestre e si destava alla luce del giorno, accigliato, severo, impetuoso; invano cercava di stornarlo dai foschi pensieri, inducendolo a compiacersi piuttosto, dinanzi allo specchio, del buon esito dell'operazione e della barba ricresciuta e anche del pallore che in qualche modo m'ingentiliva l'aspetto. « Imbecille, che hai fatto? che hai fatto? » Che avevo fatto? Niente, siamo giusti! Avevo fatto all'amore. Al bujo - era colpa mia? - non avevo veduto più ostacoli, e avevo perduto il ritegno che m'ero imposto. Papiano voleva togliermi Adriana; la signorina Caporale me l'aveva data, me l'aveva fatta sedere accanto, e s'era buscato un pugno sulla bocca, poverina; io soffrivo, e - naturalmente - per quelle sofferenze credevo com'ogni altro sciagurato (leggi uomo) d'aver diritto a un compenso, e - poiché l'avevo allato - me l'ero preso; lì si facevano gli esperimenti della morte, e Adriana, accanto a me, era la vita, la vita che aspetta un bacio per schiudersi alla gioja; ora Manuel Bernaldez aveva baciato al bujo la sua Pepita, e allora anch'io... - Ah! Mi buttai su la poltrona, con le mani su la faccia. Mi sentivo fremere le labbra al ricordo di quel bacio. Adriana! Adriana! Che speranze le avevo acceso in cuore con quel bacio? Mia sposa, è vero? Aperte le finestre, festa per tutti! Rimasi, non so per quanto tempo, li su quella poltrona, a pensare, ora con gli occhi sbarrati, ora restringendomi tutto in me, rabbiosamente, come per schermirmi da un fitto spasimo interno. Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la frode della mia illusione: che cos'era in fondo ciò che m'era sembrata la più grande delle fortune, nella prima ebbrezza della mia liberazione. Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m'era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m'ero anche accorto ch'essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss'anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s'erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n'accorgevo veramente, ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de' miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto, stringendole la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa, ci avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore,- non ci s'eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non io, che m'ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un altro uomo, vivere un'altra vita. Un altr'uomo, sì ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? Un'ombra d'uomo! E che vita? Finché m'ero contentato di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l'illusione ch'io stessi vivendo un'altra vita; ma ora che a questa m'ero accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d'un morto, d'un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il mio strano caso... Lei? No... no... che! neanche a pensarci! Lei, così pura, così timida... Ma se pur l'amore fosse stato in lei più forte di tutto, più forte d'ogni riguardo sociale... ah povera Adriana, e come avrei potuto io chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d'un uomo che non poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare? Due colpi all'uscio mi fecero balzar dalla poltrona. Era lei, Adriana Per quanto con uno sforzo violento cercassi di arrestare in me il tumulto dei sentimenti, non potei impedire che non le apparissi almeno turbato. Turbata era anche lei, ma dal pudore, che non le consentiva di mostrarsi lieta, come avrebbe voluto, di rivedermi finalmente guarito, alla luce, e contento... No? Perché no?... Alzò appena gli occhi a guardarmi; arrossì; mi porse una busta: - Ecco, per lei... - Una lettera? - Non credo. Sarà la nota del dottor Ambrosini. Il servo vuol sapere se c'è risposta. Le tremava la voce. Sorrise. - Subito, - diss'io; ma un'improvvisa tenerezza mi prese,- comprendendo ch'ella era venuta con la scusa di quella nota per aver da me una parola che la raffermasse nelle sue speranze; un'angosciosa, profonda pietà mi vinse, pietà di lei e di me, pietà crudele, che mi spingeva irresistibilmente a carezzarla, a carezzare in lei il mio dolore, il quale soltanto in lei, che pur ne era la causa, poteva trovar conforto. E pur sapendo che mi sarei compromesso ancor più, non seppi resistere: le porsi ambo le mani. Ella, fiduciosa, ma col volto in fiamme, alzò pian piano sue e le pose sulle mie. Mi attirai allora la sua testina bionda sul petto e le passai una mano su i capelli. - Povera Adriana! - Perché? - mi domandò, sotto la carezza. - Non siamo contenti? - Sì... - E allora perché povera? Ebbi in quel momento un impeto di ribellione, fui tentato di svelarle tutto, di risponderle: « Perché? senti io ti amo, e non posso, non debbo amarti! Se tu vuoi però... ». Ma dàlli! Che poteva volere quella mite creatura? Mi premetti forte sul petto la sua testina, e sentii che sarei stato molto più crudele se dalla gioja suprema a cui ella, ignara, si sentiva in quel punto inalzata dall'amore, io l'avessi fatta precipitare nell'abisso della disperazione ch'era in me. - Perché, - dissi, lasciandola, - perché so tante cose, per cui lei non può esser contenta... Ebbe come uno smarrimento penosissimo, nel vedersi, cosi d'un tratto, sciolta dalle mie braccia. Si aspettava forse, dopo quelle carezze, che io le dessi del tu? Mi guardò e, notando la mia agitazione, domandò esitante: - Cose... che sa lei... per sé, o qui... di casa mia? Le risposi col gesto: « Qui, qui » per togliermi la tentazione che di punto in punto mi vinceva, di parlare, di aprirmi con lei. L'avessi fatto! Cagionandole subito quell'unico, forte dolore, gliene avrei risparmiato altri, e io non mi sarei cacciato in nuovi e più aspri garbugli. Ma troppo recente era allora la mia triste scoperta, avevo ancor bisogno d'approfondirla bene, e l'amore e la pietà mi toglievano il coraggio d'infrangere così d'un tratto le speranze di lei e la mia vita stessa, cioè quell'ombra d'illusione che di essa, finché tacevo, poteva ancora restarmi. Sentivo poi quanto odiosa sarebbe stata la dichiarazione che avrei dovuto farle, che io, cioè, avevo moglie ancora. Sì! sì! Svelandole che non ero Adriano Meis io tornavo ad essere Mattia Pascal, MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! Come si possono dire siffatte cose? Era il colmo, questo, della persecuzione che una moglie possa esercitare sul proprio marito: liberarsene lei, riconoscendolo morto nel cadavere d'un povero annegato, e pesare ancora, dopo la morte. su lui, addosso a lui, così. Io avrei potuto ribellarmi è vero, dichiararmi vivo, allora... Ma chi, al posto mio, non si sarebbe regolato come me? Tutti, tutti, come me, in quel punto, nei panni miei, avrebbero stimato certo una fortuna potersi liberare in un modo così inatteso, insperato, insperabile, della moglie, della suocera, dei debiti, d'un'egra e misera esistenza come quella mia. Potevo mai pensare, allora, che neanche morto mi sarei liberato della moglie? lei, sì, di me, e io no di lei? e che la vita che m'ero veduta dinanzi libera libera libera, non fosse in fondo che una illusione, la quale non poteva ridursi in realtà, se non superficialissimamente, e più schiava che mai, schiava delle finzioni, delle menzogne che con tanto disgusto m'ero veduto costretto a usare, schiava del timore d'essere scoperto, pur senza aver commesso alcun delitto? Adriana riconobbe che non aveva in casa, veramente, di che esser contenta; ma ora... E con gli occhi e con un mesto sorriso mi domandò se mai per me potesse rappresentare un ostacolo ciò che per lei era cagione di dolore. « No, è vero? » chiedeva quello sguardo e quel mesto sorriso. - Oh, ma paghiamo il dottor Ambrosini! - esclamai, fingendo di ricordarmi improvvisamente della nota e del servo che attendeva di là. Lacerai la busta e, senza por tempo in mezzo, sforzandomi d'assumere un tono scherzoso: - Seicento lire! dissi. - Guardi un po', Adriana: la Natura fa una delle sue solite stramberie; per tanti anni mi condanna a portare un occhio, diciamo così, disobbediente; io soffro dolori e prigionia per correggere lo sbaglio di lei, e ora per giunta mi tocca a pagare. Le sembra giusto? Adriana sorrise con pena. - Forse, - disse, - il dottor Ambrosini non sarebbe contento se lei gli rispondesse di rivolgersi alla Natura per il pagamento. Credo che si aspetti anche d'esser ringraziato, perché l'occhio... - Le par che stia bene? Ella si sforzò a guardarmi, e disse piano, riabbassando subito gli occhi: - Sì... Pare un altro... - Io o l'occhio? - Lei. - Forse con questa barbaccia... - No... Perché? Le sta bene... Me lo sarei cavato con un dito, quell'occhio! Che m'importava più d'averlo a posto? - Eppure, - dissi, - forse esso, per conto suo, era più contento prima. Ora mi dà un certo fastidio... Basta. Passerà! Mi recai allo stipetto a muro, in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò di volersene andare; io stupido, la trattenni; ma, già, come potevo prevedere? In tutti gl'impicci miei, grandi e piccini, sono stato, come s'è visto, soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco com'essa, anche questa volta, mi venne in ajuto. Facendo per aprire lo stipetto, notai che la chiave non girava entro la serratura: spinsi appena appena e, subito, lo sportellino cedette: era aperto! - Come! - esclamai. - Possibile ch'io l'abbia lasciato così? Notando il mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima. La guardai, e: - Ma qui... guardi, signorina, qui qualcuno ha dovuto metter le mani! C'era dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano stati tratti dalla busta di cuojo, in cui li tenevo custoditi, ed erano lì sul palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto con le mani, inorridita. Io raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a contarli. - Possibile? - esclamai, dopo aver contato, passandomi le mani tremanti su la fronte ghiaccia di sudore. Adriana fu per mancare, ma si sorresse a un tavolinetto lì presso e domandò con una voce che non mi parve più la sua : - Hanno rubato? - Aspetti... aspetti... Com'è possibile? - dissi io. E mi rimisi a contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a furia di stropicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che mancavano. - Quanto? - mi domandò ella, scontraffatta dall'orrore, dal ribrezzo, appena ebbi finito di contare. - Dodici... dodici mila lire... - balbettai. - Erano sessantacinque... sono cinquantatré! Conti lei... Se non avessi fatto a tempo a sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per terra, come sotto una mazzata. Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella poté riaversi ancora una volta, e singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da me che volevo adagiarla su la poltrona e fece per spingersi verso l'uscio: - Chiamo il babbo! chiamo il babbo! - No! - le gridai, trattenendola e costringendola a sedere. - Non si agiti così, per carità! Lei mi fa più male... Io non voglio, non voglio! Che c'entra lei? Per carità, si calmi. Mi lasci prima accertare, perché... sì, lo stipetto era aperto, ma io non posso, non voglio credere ancora a un furto così ingente... Stia buona, via! E daccapo, per un ultimo scrupolo, tornai a contare i biglietti; pur sapendo di certo che tutto il mio denaro stava lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare da per tutto, anche dove non era in alcun modo possibile ch'io avessi lasciato una tal somma, tranne che non fossi stato colto da un momento di pazzia. E per indurmi a quella ricerca che m'appariva a mano a mano sempre più sciocca e vana, mi sforzavo di credere inverosimile l'audacia del ladro. Ma Adriana, quasi farneticando, con le mani sul volto, con la voce rotta dai singhiozzi: - E inutile! è inutile! - gemeva. - Ladro... ladro... anche ladro!... Tutto congegnato avanti... Ho sentito, nel bujo... m'è nato il sospetto... ma non volli credere ch'egli potesse arrivare fino a tanto... Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del fratello, durante quelle sedute spiritiche... - Ma come mai, - gemette ella, angosciata, - come mai teneva lei tanto denaro, cosi, in casa? Mi voltai a guardarla, inebetito. Che risponderle? Potevo dirle che per forza, nella condizione mia dovevo tener con me il denaro? potevo dirle che mi era interdetto d'investirlo in qualche modo, d'affidarlo a qualcuno? che non avrei potuto neanche lasciarlo in deposito in qualche banca, giacché, se poi per caso fosse sorta qualche difficoltà non improbabile per ritirarlo, non avrei più avuto modo di far riconoscere il mio diritto su esso? E, per non apparire stupito, fui crudele: - Potevo mai supporre? - dissi. Adriana si coprì di nuovo il volto con le mani, gemendo, straziata: - Dio! Dio! Dio! Lo sgomento che avrebbe dovuto assalire il ladro nel commettere il furto, invase me, invece, al pensiero di ciò che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva certo supporre ch'io incolpassi di quel furto il pittore spagnuolo o il signor Anselmo, la signorina Caporale o la serva di casa o lo spirito di Max: doveva esser certo che avrei incolpato lui, lui e il fratello: eppure, ecco, ci s'era messo, quasi sfidandomi. E io? che potevo far io? Denunziarlo? E come? Ma niente, niente, niente! io non potevo far niente! ancora una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito. Era la seconda scoperta, in quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo denunziarlo. Che diritto avevo io alla protezione della legge? Io ero fuori d'ogni legge. Chi ero io? Nessuno! Non esistevo io, per la legge. E chiunque, ormai, poteva rubarmi; e io, zitto! Ma, tutto questo, Papiano non poteva saperlo. E dunque? - Come ha potuto farlo? - dissi quasi tra me. - Da che gli è potuto venire tanto ardire? Adriana levò il volto dalle mani e mi guardò stupita, come per dire: « E non lo sai? ». - Ah, già! - feci, comprendendo a un tratto. - Ma lei lo denunzierà! - esclamò ella, levandosi in piedi. - Mi lasci, la prego, mi lasci chiamare il babbo... Lo denunzierà subito! Feci in tempo a trattenerla ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora, per giunta, Adriana mi costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi avessero rubato, come niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il furto si conoscesse; pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte, non lo dicesse a nessuno, per carità? Ma che! Adriana - e ora lo intendo bene - non poteva assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al silenzio, non poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia generosità, per tante ragioni: prima per il suo amore, poi per l'onorabilità della sua casa, e anche per me e per l'odio ch'ella portava al cognato. Ma in quel frangente, la sua giusta ribellione mi parve proprio di più: esasperato, le gridai: - Lei si starà zitta: gliel'impongo! Non dirà nulla a nessuno, ha capito? Vuole uno scandalo? - No! no! - s'affrettò a protestare, piangendo, la povera Adriana. - Voglio liberar la mia casa dall'ignominia di quell'uomo! - Ma egli negherà! - incalzai io. - E allora, lei, tutti di casa innanzi al giudice... Non capisce? - Si, benissimo! - rispose Adriana con fuoco, tutta vibrante di sdegno. - Neghi, neghi pure! Ma noi, per conto nostro, abbiamo altro, creda, da dire contro di lui. Lei lo denunzii, non abbia riguardo, non tema per noi... Ci farà un bene, creda, un gran bene! Vendicherà la povera sorella mia... Dovrebbe intenderlo, signor Meis, che mi offenderebbe, se non lo facesse. Io voglio, voglio che lei lo denunzii. Se non lo fa lei, lo farò io! Come vuole che io rimanga con mio padre sotto quest'onta! No! no! no! E poi... Me la strinsi fra le braccia: non pensai più al denaro rubato, vedendola soffrire così, smaniare, disperata: e le promisi che avrei fatto com'ella voleva purché si calmasse. No, che onta? non c'era alcuna onta per lei, né per il suo babbo; io sapevo su chi ricadeva la colpa di quel furto; Papiano aveva stimato che il mio amore per lei valesse bene dodicimila lire, e io dovevo dimostrargli di no? Denunziarlo? Ebbene, sì, l'avrei fatto, non per me, ma per liberar la casa di lei da quel miserabile: sì, ma a un patto: che ella prima di tutto si calmasse, non piangesse più così, via! via! e poi, che mi giurasse su quel che aveva di più caro al mondo, che non avrebbe parlato a nessuno, a nessuno, di quel furto, se prima io non consultavo un avvocato per tutte le conseguenze che, in tanta sovreccitazione, né io né lei potevamo prevedere. - Me lo giura? Su ciò che ha di più caro? Me lo giurò, e con uno sguardo, tra le lagrime, mi fece intendere su che cosa me lo giurava, che cosa avesse di più caro. Povera Adriana! Rimasi lì, solo, in mezzo alla camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se tutto il mondo per me si fosse fatto vano. Quanto tempo passò prima ch'io mi riavessi? E come mi riebbi? Scemo... scemo!... Come uno scemo, andai a osservare lo sportello dello stipetto, per vedere se non ci fosse qualche traccia di violenza. No: nessuna traccia: era stato aperto pulitamente, con un grimaldello, mentr'io custodivo con tanta cura in tasca la chiave. - E non si sente lei, - mi aveva domandato il Paleari alla fine dell'ultima seduta, - non si sente lei come se le avessero sottratto qualche cosa? Dodici mila lire! Di nuovo il pensiero della mia assoluta impotenza, della mia nullità, mi assalì, mi schiacciò. Il caso che potessero rubarmi e che io fossi costretto a restar zitto e finanche con la paura che il furto fosse scoperto, come se l'avessi commesso io e non un ladro a mio danno, non mi s'era davvero affacciato alla mente. Dodici mila lire? Ma poche! poche! Possono rubarmi tutto, levarmi fin la camicia di dosso; e io, zitto! Che diritto ho io di parlare? La prima cosa che mi domanderebbero, sarebbe questa: « E voi chi siete? Donde vi era venuto quel denaro? ». Ma senza denunziarlo... vediamo un po'! se questa sera io lo afferro per il collo e gli grido: « Qua subito il denaro che hai tolto di là, dallo stipetto, pezzo di ladro! ». Egli strilla; nega; può forse dirmi: « Sissignore, eccolo qua, I'ho preso per isbaglio... »? E allora? Ma c'è il caso che mi dia anche querela per diffamazione. Zitto, dunque, zitto! M'è sembrata una fortuna l'esser creduto morto? Ebbene, e sono morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l'ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja di prima, la solitudine, la compagnia di me stesso? Mi nascosi il volto con le mani; caddi a sedere su la poltrona. Ah, fossi stato almeno un mascalzone! avrei potuto forse adattarmi a restar così, sospeso nell'incertezza della sorte, abbandonato al caso, esposto a un rischio continuo, senza base, senza consistenza. Ma io? Io, no. E che fare, dunque? Andarmene via? E dove? E Adriana? Ma che potevo fare per lei? Nulla... nulla... Come andarmene però così, senz'alcuna spiegazione, dopo quanto era accaduto? Ella ne avrebbe cercato la causa in quel furto; avrebbe detto: « E perché ha voluto salvare il reo, e punir me innocente? ». Ah no, no, povera Adriana! Ma, d'altra parte, non potendo far nulla come sperare di rendere men trista la mia parte verso di lei? Per forza dovevo dimostrarmi inconseguente e crudele. L'inconseguenza, la crudeltà erano della mia stessa sorte, e io per il primo ne soffrivo. Fin Papiano, il ladro, commettendo il furto, era stato più conseguente e men crudele di quel che pur troppo avrei dovuto dimostrarmi io. Egli voleva Adriana, per non restituire al suocero la dote della prima moglie: io avevo voluto togliergli Adriana? e dunque la dote bisognava che la restituissi io, al Paleari. Per ladro, conseguentissimo! Ladro? Ma neanche ladro: perché la sottrazione, in fondo, sarebbe stata più apparente che reale: infatti, conoscendo egli l'onestà di Adriana, non poteva pensare ch'io volessi farne la mia amante: volevo certo farla mia moglie: ebbene allora avrei riavuto il mio denaro sotto forma di dote d'Adriana, e per di più avrei avuto una mogliettina saggia e buona: che cercavo di più? Oh, io ero sicuro che, potendo aspettare, e se Adriana avesse avuto la forza di serbare il segreto, avremmo veduto Papiano attener la promessa di restituire, anche prima dell'anno di comporto, la dote della defunta moglie. Quel denaro, è vero, non poteva più venire a me, perché Adriana non poteva esser mia: ma sarebbe andato a lei, se ella ora avesse saputo tacere, seguendo il mio consiglio, e se io mi fossi potuto trattenere ancora per qualche po' di tempo lì. Molta arte, molta arte avrei dovuto adoperare, e allora Adriana, se non altro, ci avrebbe forse guadagnato questo: la restituzione della sua dote. M'acquietai un po', almeno per lei, pensando così. Ah, non per me! Per me rimaneva la crudezza della frode scoperta, quella de la mia illusione, di fronte a cui era nulla il furto delle dodici mila lire, era anzi un bene, se poteva risolversi in un vantaggio per Adriana. Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con quell'esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po' di requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo' affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per me. Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s'affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l'ombra mia. Chi era più ombra di noi due? io o lei? Due ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta. L'ombra d'un morto: ecco la mia vita... Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro. - Là, cosi! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, si: alza un'anca! alza un'anca! Scoppiai a ridere d'un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l'ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, Sotto i piedi de' viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora. « E se mi metto a correre, » pensai, « mi seguirà! » Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma si! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma. Ma aveva un cuore, quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch'era la testa di un'ombra, e non l'ombra d'una testa. Proprio cosi! Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de' viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai. Rientrando in casa.

XV: Ich und mein Schatten

Ich habe schon oft erlebt, dass ich, wenn ich im Herzen der Nacht aufwachte (wobei die Nacht in diesem Fall kein Herz zu haben schien), dass ich in der Dunkelheit, der Stille, von einem seltsamen Erstaunen ergriffen wurde, ein schwache Erinnerung an etwas, was ich tagsüber, bei Tageslicht, gemacht habe, ohne groß darauf zu achten. Ich frage mich dann, ob in unsere Handlungen nicht auch durch die Farben, durch den Blick auf die uns umgebenden Dinge, durch das Getöse des Lebens beeinflusst sind. Ohne Zweifel. Und wer weiß, durch wieviele andere Dinge! Leben wir nicht, nachdem was Herr Anselmo erzählt, in Einklang mit dem Universum? Nun muss man sehen, wieviel Dummheiten, für die wir später unser elendes Bewußtsein verantwortlich machen, das doch ganz von äußeren Kräften bestimmt wird, geblendet von einem Licht, das sich außerhalb von uns befindet, wir wegen diesem Universum begehen. Und wieviele Überlegungen, wieviele geplante Projekte, wieviele Tricks, die man sich nachts ausgedacht hat, erscheinen nicht leer, stürzen zusammen und lösen sich auf beim Licht des Tages? Wie verschieden der Tag von der Nacht ist, so verschieden sind wir am Tag im Vergleich zu dem, was wir nachts sind. Elende sind wir, am Tag, wie auch bei Nacht. Ich weiß, dass ich keine Freude empfand, als ich nach 40 Tagen die Fenster meines Zimmers öffnete und das Licht wieder sah. Die Erinnerung, an das was ich in jenen Tagen in der Dunkelheit gesehen hatte, wurde durch dieses Licht bedeckt. Alle Gründe, Entschuldigungen und Überzeugungen, die ich in der Dunkelheit hatte, hatten ihr Gewicht und ihren Wert. Kaum aber waren die Fenster geöffnet hatten sie keinen mehr, einen anderen oder den genau entgegengesetzten. Dieses arme ich, dass so lange Zeit hinter geschlossenen Fenstern gelebt hatte und alles getan hatte, um sich von der erregten Unruhe des Gefängnisses zu befreien, stand nun schüchtern wie ein geprügelter Hund neben diesem anderen ich, das die Fenster geöffnet hatte und beim Licht des Tages erwachte, zornig, ernst, aufgewühlt. Vergeblich versuchte er das eine ich von den trüben Gedanken abzulenken, versuchte, es dazu zu bringen sich vor dem Spiegel an dem Erfolg der Operation, dem wiedergewachsenen Bart und auch der Blässe, die den Eindruck verschönerte, zu erfreuen. "Idiot, was hast du gemacht? Was hast du gemacht?" Was ich gemacht hatte? Nichts, seien wir ehrlich! Ich hatte geliebt. In der Dunkelheit hatte ich, war es meine Schuld, keine Hindernisse mehr gesehen, und die Zurückhaltung, die mir auferlegt war, verloren. Papiano wollte mir Adriana wegnehmen. Frau Caporale hatte sie mir gegeben und dafür einen Faustschlag ins Gesicht erhalten, die Arme. Ich litt, und glaubte natürlich, dass ich deswegen, wie alle anderen Unglücklichen auch, ein Recht auf einen Ausgleich gehabt hätte und da er mir dargeboten worden war, habe ich ihn mir genommen. Dort machte man Experimente des Todes und Adriana, neben mir, war das Leben, das Leben, das einen Kuss erwartete um sich der Freude zu öffnen. In der Dunkelheit hatte Manuel Bernaldez seine Pepita geküsst, und ich folglich .... "Ah!" Ich warf mich mit den Händen auf dem Gesicht in den Sessel. Ich fühlte, wie meine Lippen zitterten bei der Erinnerung an diesen Kuss. Adriana! Adriana! Welche Hoffnung hatte ich mit jenem Kuss in ihrem Herz entzündet? Meine Ehefrau, ist das wahr? Die Fenster geöffnet, ein Fest für alle! Ich blieb, ich weiß nicht wie für lange, auf diesem Sessel sitzen, dachte, abwechselnd mit verschlossenen Augen, dann wieder in gekrümmter Haltung, wütend, wie um mich von einer tiefen inneren Qual zu beschützen. Schließlich sah ich in seiner ganzen Roheit den Trug der Illusion: Was war es, was mir als die größte Freude erschien, in der ersten Trunkenheit meiner Freiheit. Ich hatte schon erfahren, dass meine Freiheit, die mir anfangs ohne Grenzen schien, dennoch durch die geringe Geldmenge, die mir zur Verfügung stand begrenzt war. Dann stellte ich fest, dass man diese auch zutreffend Einsamkeit und Langeweile nennen könnte und sie mich zu einer fürchterlichen Strafe verurteilte, nämlich mich selbst als Begleiter zu haben. Ich habe mich also den anderen genähert. Doch die Absicht mich davor zu hüten, die abgeschnittenen Fäden, wenn auch nur lose, wieder zusammenzufügen, zu was hatte er genützt? Das ist es. Sie hatten sich von selbst wieder verbunden, diese Fäden. Und das Leben, das es für mich nicht mehr gab, hatte mich, wie sehr ich mich, vorgewarnt, auch dagegen gesträubt hatte, hatte mich mitgerissen, mit seinem unwiderstehlichen Eifer. Ah, jetzt, wo ich nicht mehr mit leeren Ausreden, mit fast kindischen Täuschungen, frommen Lügen, elenden Entschuldigungen verhindern konnte, dass ich mir meiner Gefühle für Adriana bewusst wurde, die Art meiner Absichten, meiner Taten, meiner Worte nicht mehr mildern konnte. Zuviele Sachen habe ich ihr gesagt, ohne zu sprechen, indem ich ihre Hand drückte, sie dazu verführte, ihre Finger mit den meinen zu verflechten. Und ein Kuss, ein Kuss hatte schließlich unsere Liebe besiegelt. Wie aber nun mit Taten dem Versprechen folgen? Konnte ich Adriana heiraten? Im Graben der Mühle, dort, auf dem Gut Stìa, haben diese zwei Frauen, Romilda und die Witwe Pescatore, mich weggeworfen, nicht etwa sich selber! Frei war also sie, meine Frau und nicht ich. Ich hatte mich darauf eingelassen den Toten zu spielen, hatte mir vorgegegaukelt ein anderer Mensch werden zu können, ein anderes Leben leben zu können. Ein anderer Mensch ja, aber nur unter der Vorraussetzung, dass ich nichts mehr tue. Was für ein Mensch also? Der Schatten von einem Mensch! Und was für ein Leben? Solange ich mich damit zufrieden gab, abgeschottet zu sein und das Leben der anderen zu betrachten, ja, solange habe ich die Illusion haben können, dass ich ein anderes Leben lebe. Aber jetzt, wo ich mich bis zu dem Punkt genähert habe, wo ich einen Kuss von zwei teuren Lippen empfing, musst ich mich entsetzt zurückziehen, so, als wenn ich Adriana mit den Lippen eines Toten geküsst hätte, eines Toten, der für sie nicht noch einmal leben kann! Käufliche Lippen, ja, die hätte ich küssen können. Doch welchen Geschmack des Lebens hätten diese gehabt? Oh, wenn Adriana meinen merkwürdigen Fall kennen würde...Sie? Nein...nein...was! Nicht mal daran denken! Sie, so rein, so schüchtern.. Aber wenn die Liebe in ihr stärker ist als alles andere, stärker als jeder Rücksicht auf die Gesellschaft..., oh arme Adriana, wie hätte ich sie in die Leere meines Schicksals mit einschließen können, sie zur Gefährtin eines Mannes machen, der sich als Lebender nicht zu erkennen geben konnte, der nicht beweisen konnte, dass er lebte. Was sollte ich tun? Was tun? Zwei Schläge an der Tür ließen mich vom Sessel aufspringen. Es war Adriana. So sehr ich mich auch anstrengte, den Aufruhr meiner Gefühle zu bändigen, konnte ich doch nicht verhindern, dass ich ihr zumindest aufgeregt erschien. Aufgerecht war auch sie, aber aus Scham, dass sie sich nicht glücklich zeigen durfte, wie sie es gewollt hatte, mich endlich genesen wiederzusehen, bei Tageslicht und zufrieden... Nein? Warum nicht?...Sie hob kaum die Augen um mich anzuschauen. Errötete. Übergab mir einen Umschlag. "Das ist für Sie..." "Ein Brief?" "Ich glaube nicht. Es wird die Rechnung von Doktor Ambrosini sein. Sein Diener wartet auf eine Antwort." Ihre Stimme zitterte. Sie lächelte. "Sofort", sagte ich. Doch plötzlich, als ich sah, dass dieser Brief nur ein Vorwand war, um von mir ein Wort zu hören, dass ihre Hoffnungen bestätigte, ward ich von zärtlichen Gefühlen überwältigt. Ein ängstliches, tiefes Mitgefühl übermannte micht, Mitleid für mich und für sie, ein grausames Mitleid, das nur durch sie, die auch dessen Ursache war, Trost finden konnte. Und obwohl ich wusste, dass ich mich noch tiefer verstrecken würde, konnte ich nicht widerstehen. Ich streckte ihr beide Hände entgegen. Sie, voller Vertrauen, aber das Gesicht in Flammen, hob ganz langsam die ihren und legte sie in die meinen. Ich zog jetzt ihren kleinen, blonden Kopf an meine Brust und strich ihr mit einer Hand durch die Haare. "Arme Adriana!" "Warum?", fragte ich sie mich, während ich sie streichelte. "Sind wir nicht glücklich?" "Doch..." "Und wieso dann arm?" Für einen kurzen Moment war ich bereit aufzubegehren, ihr alles zu offenbaren, ihr zu sagen: "Warum? Hör, ich lieb dich, aber ich kann und soll dich nicht lieben! Wenn du willst, aber....". Aber nein! Was konnte dieses sanfte Wesen wollen? Ich drückte ihren Kopf fest gegen ihre Brust und fühlte, dass es viel grausamer wäre, wenn ich sie aus der höchsten Freude in der sie sich jetzt, wo sie nichts wusste, ich sie in den Abgrund der Verzweiflung gestürtzt hätte, in der ich mich befand. "Warum", so fragte ich, mich von ihr trennend, "weil ich so viele Dinge weiß, über die Sie nicht glücklich sein können..." Eine Art schmerzliche Verwirrung überkam sie, als sie plötzlich sah, dass sich meine Arme nicht mehr um mich schlossen. Glaubte sie etwa, dass ich sie nach jenen Zärtlichkeiten mit du ansprechen würde? Sie schaute mich an und, da sie meine Erregung spürte, fragte sie mich zögernd. "Was...was wissen sie...über sich, oder hier...über mein Zuhause?" Ich antwortete mit einer Geste: "Hier, hier", um mich der Versuchung zu entziehen, die mich von Zeit zu Zeit überkam, der Versuchung ihr alles zu erzählen, mich ihr zu öffnene. Wenn ich es doch nur gemacht hätte! Hätte ich den einzigen, schweren Schmerz zugefügt, hätte ich ihr andere erspart und hätte mich nicht in ein neues und noch raueres Wirrwarr verstrickt. Doch meine Entdeckung war noch zu neu, ich musste sie noch tiefer ausloten und die Liebe und das Mitleid nahmen mir den Mut ganz plötzlich ihre und meine Hoffnungen zu zerstören, das heißt jenen Schatten an Illusion, der mir verblieb solange ich schwieg. Ich fühlte, wie elendig die Erklärungen, die ich ihr hätte machen müssen, sein würden, also dass ich noch eine Frau hatte. Ja! Ja! Ihr zu offenbaren, dass ich nicht Adriano Meis bin, dass ich wieder Mattia Pascal sein werde, tot und noch verheiratet! Wie kann man so etwas sagen? Das war der Gipfel der Verfolgung, die eine Frau einem Mann angedeihen lassen kann. Sich von ihm zu befreien, den Kadaver eines armen Ertrunkenen ihm zuzuschreiben und dennoch, nach seinem Tod, ihn zu belasten. Über ihm, auf ihm, so. Ich hätte mich wehren können, das ist richtig, zeigen können, dass ich lebe, dann.... Aber wer, wenn er in meiner Lage gewesen wäre, hätte nich das gleiche wie ich getan? Alle, alle, wie ich, in diesem Moment, wenn er in meiner Haut gesteckt hätte, hätte es sich er als Glück empfunden sich auf eine so unerwartete, unverhoffte, unerwartbare Weise von der Frau, der Schwiegermutter, von den Schulden, von einer bedrückenden und elenden Existenz wie der meinen zu befreien. Hätte ich mir vorstellen können, dass ich nicht mal tot, mich von meiner Frau würde befreien können? Sie schon, von mir, aber ich nicht von ihr? Und dass das Leben, das vor mir liegt, frei, frei, frei im Grunde nur eine Illusion ist, die nicht Wirklichkeit werden konnte, es sei denn auf eine sehr oberflächliche Art und noch unterjochter, als ich es jemals war, unterjocht von den Fiktionen, den Lügen, die ich mir höchst unwillig audenken musste, unterjocht von der Angst, entdeckt zu werden, ohne auch nur irgend eine strafbare Handlung begangen zu haben? Adriana erkannte an, dass es zu Hause nichts gab, aber das sie glücklich sein konnte. Aber jetzt...Und mit einem traurigen Lächeln fragte sie mich, ob für mich etwas ein Hindernis sein könne, was für sie der Grund ihres Kummers war. "Nein, stimmt' s?", fragte jener Blick und jenes Lächeln. "Aber zahlen wir den Doktor Ambrosini!", rief ich und täuschte vor, mich plötzlich an den Brief des Dieners, der noch da wartete, zu erinnern. Ich öffnete den Brief und sagte dabei, mich um einen scherzhaften Ton bemühend: "Sechshundert Lire! Da schauen Sie mal her, Adriana. Die Natur leistet sich eine ihrer Extravaganzen und verurteilt mich dazu, ein, sagen wir mal ungehorsames Auge mit mir herumzutragen. Ich erdulde die Qualen des Gefängnisses um ihren Fehler zu korrigieren und nun muss ich obendrein auch noch bezahlen. Kommt ihnen das gerecht vor?" Adriana lächelte gequält. "Vermutlich", sagte sie, "wäre der Doktor Ambrosini nicht zufrieden gewesen, wenn sie ihm gesagt hätten, dass er sich wegen der Bezahlung an die Natur wenden möge. Ich glaube, er erwartet, dass man sich dankbar zeigt, weil das Auge..." "Sie finden, dass es gut ist?" Sie bemühte sich, mich anzuschauen und sagte langsam, mit gesenkten Augen. "Ja...Sie scheinen ein anderer Mensch..." "Ich oder das Auge?" "Sie" "Vielliecht wegen dem Bart..." "Nein...Warum? Es steht ihnen gut..." Ich hätte mir das Auge am liebsten mit einem Finger herausgerissen! Was lag mir jetzt daran, dass es an seinem Platz war? "Und dennoch", sagte ich, "vielleicht war es, vorher, als es noch selbständig war, zufriedener. Jetzt ärgert es mich ein bisschen Basta. Das geht vorüber!" Ich begab mich zu dem kleinen Wandschrank in der Mauer, in dem ich das Geld aufbewahrte. Adriana wandte sich zum gehen. Ich, blöd wie ich war, hielt sie zurück. Doch wie hätte ich das vorhersehen können? In allen misslichen Situatione, groß oder klein, war ich, wie man gesehen hat, vom Glück begünstigt. Man wird nun sehen, dass es mir auch dieses Mal zur Hilfe eilte. Als ich mich daran machte, den Wandschrank zu öffnen, bemerkte ich, dass der Schlüssel sich nicht mehr im Schloss drehte. Ich übte nur sehr wenig Druck aus, da öffnete sich das Türchen schon. Es war unverschlossen! "Wie!", rief ich. "Ist es möglich, dass ich es offen gelassen hatte?" Da sie meine plötzliche Überraschung sah, war Adriana sehr blass geworden. Ich schaute sie an. "Aber hier, schauen Sie Fräulein, muss irgendjemand Hand angelegt haben!" Im Inneren des Wandschranks war eine große Unordnung. Meine Banknoten ware aus dem Couvert gezogen worden, in welchen ich sie verwahrt hatte und lagen nun im Fach verstreut. Adriana bedeckte ihr Gesicht mit den Händen, entsetzt. Ich sammelte fieberhaft die Banknoten zusammen und machte mich daran, sie zu zählen. "Ist es möglich?", rief ich, nachdem ich gezählt hatte, mit den fiebernden Händen über die mit eiskaltem Schweiß bedeckte Stirn fahrend. Adriana war kurz davor, ohnmächtig zu werden, hielt sich jedoch an einem Tischchen fest und fragte mit einer Stimme, die mir nicht mehr die ihre schien. "Haben sie etwas gestohlen?" "Warte....warte...Wie ist das möglich?", sagte ich. Ich zählte nochmal, wütend die Finger und das Papier bearbeitend, als ob man, indem man zerknittert, aus diesen Banknoten die fehlenden zum Vorschein bringen könnte. "Wieviel?", fragte sie mich, von Entsetzen gepackt. "Es waren fünfundsechzig ... es sind fünfundreißig! Zählen Sie..." Wenn ich sie nicht rechtzeitig gestützt hätte, wäre die arme Adriana zu Boden gefallen, wie vom Schlag getroffen zu Boden gestürzt. Mit letzter Kraft konnte sie sich jedoch nochmal zusammenreissen und schluchzend, von Krämpfen geschüttelt, versuchte sie sich von mir, der ich versuchte sie zu einem Sessel zu führen, loszumachen und an die Tür zu gelangen. "Ich rufe den Vater! Rufe den Vater!" "Nein!", rief ich zu, hielt sie zurück und zwang sie, sich zu setzen. "Regen Sie sich nicht so auf, um Gottes willen! So fühl ich mich noch elender...Ich will nicht, ich will nicht! Was haben Sie damit zu tun? Um Gottes willen, beruhigen sie sich. Lassen sie mich erstmal überlegen, weil, ...ja, der Wandschrank war auf, aber ich kann nicht, willl nicht an so einen dreisten Diebstahl glauben. Beruhigen Sie sich!" Und nochmal, um alle Zweifel auszuräumen, machte ich mich nochmal daran, die Banknoten zu zählen, auch wenn ich mit Sicherheit wusste, dass all mein Geld da war, in jenem Wandschrank, machte ich mich daran, alles nochmal zu durchsuchen, auch da, wo es ausgeschlossen schien, dass ich die Summe dahin gelegt hatte, außer ich wäre in diesem Moment verrückt gewesen. Um mich selbst davon zu überzeugen, dass diese Suche, die mir allmählich immer immer dümmer und sinnloser erschien, zwang ich mich zu glauben, dass es unwahrscheinlich ist, dass ein Dieb so dreist ist. Aber Adriana, was schon wie im Irrsinn daherredend, mit den Händen auf dem Gesicht, der Stimme von Schluchzern zerbrochen: "Es ist sinnlos! Es ist sinnlos", schrie sie. "Dieb...Dieb...auch noch ein Dieb!...Alles im voraus geplant...Ich habe es im Dunkeln gehört...Ich schöpfte Verdacht... wollte aber nicht glauben, dass er dazu in der Lage wäre..." Papiano, ja. Kein anderer als er, konnte der Dieb sein. Er, mit Hilfe des Bruders, während der spiritistischen Sitzungen... "Aber wie konnten Sie", schluchzte sie, ängstlich, "wie konnten Sie soviel Geld, einfach so, im Hause aufbewahren?" Ich drehte mich um, um sie anzuschauen, wie betäubt. Was sollte ich ihr antworten? Konnte ich ihr sagen, dass ich gezwungen war, duch die Umstände, in denen ich mich befand, alles Geld bei mir zu behalten? Konnte ich ihr sagen, dass es mir verboten war, es auf irgendeine Art zu investieren, es jemandem anzuvertrauen? Dass ich es auch nicht zur Bank bringen konnte, da, wenn es nicht mal so unwahrscheinliche Probleme gegeben hätte es abzuheben, ich keine Möglichkeit hatte zu beweißen, dass es mir gehörte? Damit ich nicht dumm erschien, war ich grausam. "Hätte ich das ahnen können?", sagte ich. Adriana bedeckte sich wieder das Gesicht mit den Händen, schluchzend, gepeinigt. "Oh mein Gott! Oh mein Gott! Oh mein Gott!" Das Entsetzen, das den Dieb hätte befallen müssen, als er den Diebstahl beging, ergriff jetzt stattdessen mich, als ich darüber nachdachte, was vorgefallen sein musste. Papiano musste sicher sein, dass ich nicht den spanischen Maler oder Herrn Anselmo dieses Diebstahls bezichtigen würde. Er musste davon ausgehen, dass ich ihn beschuldigen würde, ihn und den Bruder. Und trotzdem hat er es getan, fast um mich herauszufordern. Und ich? Was konnte ich tun? Ihn anzeigen? Und wie? Nichts, nichts, nichts! Ich konnte nichts tun! Und nochmal! Nichts! Ich fühlte mich niedergeschlagen, vernichtet. Das war die zweite Entdeckung an diesem Tag! Ich kannte den Dieb, konnte aber nichts tun. Welches Recht hatte ich auf den Schutz des Gesetzes? Ich stand außerhalb des Gesetzes. Wer war ich ? Niemand! Für das Gesetz, existierte ich nicht. Und jedermann konnte mich folglich ausrauben. Und ich, still! Doch Papiano konnte das alles nicht wissen. Was nun? "Wie konnte er das tun?", dachte ich bei mir. "Was brachte ihn dazu, so viel auf' s Spiel zu setzen?" Adriana hob den Kopf aus den Händen und schaute mich verwirrt an, als ob sie sagen wollte: "Und Sie wissen es nicht?" "Ah, schon!", antwortete ich und auf einmal wurde mir alles klar. "Aber sie werden ihn anzeigen!", rief sie und stand auf. "Lassen Sie mich, ich bitte sie, lassen sie mich den Vater rufen...Er wird ihn sofort anzeigen!" Ich konnte sie gerade noch zurückhalten. Das hätte mir gerade noch gefehlt, dass Adriana mich jetzt auch noch zwingt, den Diebstahl anzuzeigen! Reichte es nicht, dass man mir, also ob es nichts wäre, zwöltfausend Euro gestohlen hatte! Musste ich auch noch fürchten, dass der Diebstahl bekannt würde. Adriana anflehen, sie beschwören, dass sie nicht so laut schreien möge, dass sie es niemand sagt, um Gottes willen? Sinnlos! Adriana, was ich jetzt gut verstehe, konnte absolut nicht erlauben, dass ich schweige und auch sie zwinge zu schweigen, sie konnte aus vielerlei Gründen nicht akzeptieren, dass ich, wie sie glaubte, mich großzügig zeige. Erstens wegen ihrer Liebe, dann wegen der Ehre ihres Hauses und dann auch noch wegen dem Hass, den sie dem Schwager entgegenbrachte. Doch in dieser misslichen Lage erschien mir ihre Begehren überzogen: Außer mir schrie ich: "Werden Sie wohl still sein. Ich befehle es Ihnen! Sie werden niemandem irgendetwas erzählen, haben Sie verstanden? Wollen Sie einen Skandal?" "Nein! Nein!", beeilte sich die arme Adriana weinend zu erwidern. "Ich will mein Haus von der Schande dieses Mannes befreien!" "Er wird es abstreiten!", drängte ich. "Und dann stehen Sie, er, alle des Hauses vor dem Richter...Verstehen Sie nicht?" "Doch, sehr gut!", antwortete Adriana erregt, zitternd vor Empörung. "Soll er abstreiten, abstreiten! Aber wir, wir haben auch noch andere Dinge, wegen denen wir ihn anklagen können. Zeigen Sie ihn an, nehmen Sie keine Rücksicht, fürchten Sie sich nicht um uns...Sie tun uns einen Gefallen damit, einen großen Gefallen! Sie werden meine arme Schwester rächen...Sie müssen es versuchen, Herr Meis, sie würden mich beleidigen, wenn Sie es nicht tun würden. Ich will, ich will, dass sie ihn anklagen. Wenn Sie es nicht tun, dann mach ich es! Wie wollen sie, dass ich mit meinem Vater mit dieser Schande lebe! Nein! Nein! Nein! Und dann... Ich nahm sie in meine Arme. Ich dachte nicht mehr an das gestohlene Geld, als ich sie so leiden sah, leiden, verzweifelt. Ich versprach ihr, zu tun, was sie verlangte, damit sie sich beruhige. Doch welche Schande? Weder sie noch ihr Vater hatten Schande auf sich geladen. Ich wusste, wer für den Diebstahl verantwortlich war. Hatte Papiano gedacht, dass meine Liebe zu ihr gut 12000 Lire wert sei, und dass ich das Gegenteil beweisen müsste? Ihn anzeigen? Gut, ich hätte es getan. Nicht wegen mir, sondern um das Haus von diesem Elenden zu säubern. Ja, aber nur unter einer Bedingung. Dass sie sich vorher beruhige und nicht mehr so weine. Und dann, dass sie mir schwöre bei dem, was ihr am teuersten ist auf der Welt, dass sie mit niemandem darüber spreche, mit niemandem über diesen Diebstahl, bevor ich nicht einen Rechtsanwalt konsultiert hätte, der uns über alle Konsequenzen aufklären würde, die in der Erregung weder ich noch sie voraussehen konnten. Schwören Sie mir das? Bei dem, was ihnen am teuersten ist? Sie schwor es mir und gab mir mit einem tränenerfüllten Blick zu verstehen, was ihr am teuersten war, bei was sie schwörte. Arme Adriana! Ich blieb da, allein, inmitten des Zimmers, verblüfft, leer, vernichtet, also ob die ganze Welt für mich leer wäre. Wieviel Zeit mag vergangen sein, bevor ich wieder zu mir kam? Und wie kam ich wieder zu mir? Dummkopf...Dummkopf! ... Wie ein Dummkopf betrachtete ich die Tür des Wandschrankes, um zu sehen, ob nicht ein Zeichen von Gewaltanwendung zu sehen wäre. Nein, keine Spur. Er war sauber mit einem Dietrick geöffnet worden, während ich den Schlüssel so sorgfältig in der Tasche aufbewahrte. "Und fühlen sie sich nicht", hatte er mich Paleari am Ende der letzten Sitzung gefragt, "fühlen sie sich nicht, als ob man ihnen etwas entzogen hätte?" Zwölftausend Lire! Wieder bedrückte mich, zerquetschte mich das Gefühl meiner absoluten Machtlosigkeit, meiner Nichtigkeit. Die Tatsache, dass man mich ausrauben konnte, und dass ich gezwungen wäre ruhig zu bleiben und sogar Angst haben müsse, dass der Diebstahl entdeckt würde, so als ob ich selber und nicht ein Dieb auf meine Kosten ihn begangen hätte, hatte sich noch nicht meinen Geist durchdrungen. Zwölftausend Lire? So wenig! Wenig! Man kann mir alles stehlen, mir das letzte Hemd ausziehen, das Ergebnis wäre dies: "Ihr, wer seid Ihr? Von woher haben Sie das Geld? " Wenn ich es aber nicht anzeige.... Denken wir nach! Wenn ich ihn heute abend beim Kragen packe und ihm anschreie: "Rück das Geld raus, dass du aus dem Wandschrank genommen hast, verdammter Dieb!" Er schreit. Streitet ab. Kann er mir vielleicht sagen: "Ja Herr, hier ist es, ich habe es aus Versehen genommen..."? Und dann? Aber er kann mich auch wegen übler Nachrede anzeigen. Still, still! War es mir als ein Glück erschienen, für tot gehalten zu werden? Nun gut, ich bin tatsächlich tot. Tot? Schlimmer als tot. Herr Anselmo hatte es mir ins Gedächtnis gerufen. Die Toten müssen nicht mehr sterben, ich jedoch schon. Ich lebe noch für den Tod und bin tot für das Leben. Was für ein Leben konnte das meinige noch sein? Die Langeweile von einst, die Einsamkeit, mich selbst als Begleiter? Ich verbarg mein Gesicht in den Händen. Ließ mich in den Sessel fallen. Wenn ich doch nur ein Schurke wäre! Dann könnte ich mich daran gewöhnen, so zu leben, schwebend in einem unsicheren Schicksal, dem Zufall ausgeliefert, ständiger Gefahr ausgesetzt, ohne Basis, ohne Fundament. Aber ich? Ich, nein. Was also tun? Weggehen? Und wohin? Und Adriana? Aber was konnte ich für sie tun? Nichts...nichts... Wie aber einfach gehen, ohne irgendeine Erklärung, nach all dem, was geschehen ist? Sie hätte die Ursache in diesem Diebstahl vermutet, hätte gesagt: "Doch warum hat er den Angeklagten geschont und mich, die Unschuldige, bestraft?" Nein, nein, arme Adriana! Andererseits jedoch, wie konnte ich hoffen für sie eine weniger traurige Erscheinung zu sein, wo ich doch völlig machtlis war? Ich war gezwungen inkonsequent und grausam zu sein. Die Inkonsequenz, die Grausamkeit waren mein Schicksal und ich war der erste, der darunter litt. Sogar Papiano, der Dieb, der den Diebstahl begangen hatte, war konsequenter als ich und trat leider weniger grausam auf, als ich es tat. Er wollte Adriana um nicht dem Schwiegervater das Brautgeld der ersten Frau zurückzahlen zu müssen. Ich wollte ihm Adriana wegnehmen? Folglich war ich es, der das Brautgeld an Paleari bezahlen musste. Für einen Dieb hatte das eine gewisse Logik! Dieb? Auch er war kein Dieb. Denn die Entwendung war im Grunde mehr scheinbar als real. Da er die Sittsamkeit Adrianas kannte, konnte er nicht damit rechnen, dass ich sie zu meiner Geliebten machen wollte. Ich wollte sie zu meiner Frau machen. Dann hätte ich mein Geld als Brautgeld für Adriana erhalten und obendrein hätte ich eine kleine, vernünftige Frau gehabt: Was wollte ich mehr? Ich war sicher, dass ich warten konnte und wenn Adriana die Kraft hätte, das Geheimnis für sich zu behalten, hätten wir sehen können, dass Papiano das Versprechen, das Brautgeld der verstorbenen Gattin zurückzubezahlen, einhalten würde. Dieses Geld, das ist richtig, konnte nicht mehr von mir kommen, weil Adriana nicht die meinige sein konnte. Aber sie hätte es erhalten, wenn sie hätte schweigen können, meinem Rat gefolgt wäre und wenn ich mich noch eine zeitlang dort hätte aufhalten können. Ich beruhigte mich bei diesen Gedanken ein bisschen, zumindest, was sie anging. Nicht aber für mich! Für mich blieb es eine grausame Tatsache, dass der Betrug aufgedeckt worden war, die Illusion meiner Freiheit und im Vergleich dazu war der Diebstahl der zwölftausen Lire nichts, es war sogar gut, wenn man sich daraus ein Vorteil für Adriana ergäbe. Ich sah mich für immer vom Leben ausgeschlossen, ohne die Möglichkeit, in dieses wieder einzutreten. Mit diesem Schmerz im Herzen, mit dieser Erfahrung, wäre ich gegangen, weg von diesem Haus, an das ich mich schon gewöhnt hatte, wo ich ein bisschen Ruhe gefunden hatte, wo ich mir fast ein Nest gebaut hätte. Wäre wieder auf der Straße gewesen, ohne Ziel, ohne Zweck, im leeren Raum. Die Angst mich erneut in den Schlingen des Lebens zu verfangen, hätte mich eine noch größere Distanz zu den Menschen einnehmen lassen. Allein, allein, vollkommen allein, misstrauisch, argwöhnisch. Das Verdammung des Tantalus wäre für mich wieder Wirklichkeit geworden. Wie ein Verrrückter stürmte ich aus dem Haus. Ich befand mich auf der Via Flaminia, in der Nähe der Molle Brücke. Was hatte ich dort zu suchen? Ich schaute um mich. Dann blieben meine Augen auf dem Schatten meines Körpers haften und ich verweilte einen Augenblick, um ihn zu betrachten. Dann trat ich mit dem Fuß nach ihm, konnte ihn aber nicht erreichen, meinen Schatten. Wer von uns beiden glich mehr einem Schatten? Ich oder er? Zwei Schatten! Dort unten, auf der Erde. Jeder konnte darüber hinwegschreiten. Den Kopf platttreten, das Herz. Und ich, still. Der Schatten, still. Der Schatten eines Toten. Das ist mein Leben... Ein Wagen fuhr vorüber. Ich blieb stehen, absichtlich. Zuerst das Pferd, mit den vier Hufen, dann die Räder des Wagens. "Ja, genau so! Vollständig, über den Hals! Oh, oh auch du Hündchen? Auf, sei brav, ja. Heb eine Pfote! Heb eine Pfote! Ich brach in ein bösartiges Gelächter aus. Das Hündchen sprang fort, verschreckt. Der Kutscher drehte sich um, um nach mir zu schauen. Jetzt bewegte ich mich. Der Schatten mit mir, vor mir. Ich beschleunigte den Schritt, um ihn unter die anderen Karren zu jagen, unter die Füße der Vorübergehenden, hatte Spaß daran. Eine böse Raserei hatte mich erfasst, die mir fast den Bauch umklammerte. Schließlich ertrug ich den vor mir liegenden Schatten nicht mehr. Ich drehte mich um. Doch nun hatte ich ihn hinter mir. "Und wenn ich laufe", dachte ich, "wird er mir folgen!" Ich rieb mir, aus Angst dem Wahnsinn nahe zu sein, einer fixen Idee zu erliegen, die Stirn. Aber ja! So war es! Das Symbol, der Geist meines Lebens war dieser Schatten. Ich war es, auf der Erde, dem Mutwillen der Füße der anderen ausgesetzt. Das war es, was von Mattia Pascal, der auf Stìa gestorben war, übrig geblieben war. Sei Schatten auf den Straßen von Rom. Doch er hatte ein Herz, dieser Schatten, doch konnte er nicht lieben. Er hatte Geld, dieser Schatten, aber jeder konnte es ihm stehlen. Er hatte einen Kopf, doch nur um zu denken und zu verstehen, dass es sich um den Kopf eines Schattens handelte und nicht um den Kopf. So war das! Ich nahm ihn als etwas lebendiges wahr, fühlte seinetwegen Schmerzen, also ob das Pferd, die Räder des Karrens und die Füße der Fußgänger ihn tatsächlich in Stücke gerissen hätten. Ich wollte ihn nicht mehr da lassen, der Erde ausgesetzt. Eine Straßenbahn kam vorüber und ich stieg ein. Als ich wieder zu Hause war.






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