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VI: Tac tac tac...

Lei sola, là dentro, quella pallottola d'avorio, correndo graziosa nella roulette, in senso inverso al quadrante, pareva giocasse: « Tac tac tac » Lei sola: - non certo quelli che la guardavano, sospesi nel supplizio che cagionava loro il capriccio di essa, a cui - ecco - sotto, su i quadrati gialli del tavoliere, tante mani avevano recato, come in offerta votiva, oro, oro e oro, tante mani che tremavano adesso nell'attesa angosciosa, palpando inconsciamente altro oro, quello della prossima posta, mentre gli occhi supplici pareva dicessero: « Dove a te piaccia, dove a te piaccia di cadere, graziosa pallottola d'avorio, nostra dea crudele! ». Ero capitato là, a Montecarlo, per caso. Dopo una delle solite scene con mia suocera e mia moglie, che ora, oppresso e fiaccato com'ero dalla doppia recente sciagura, mi cagionavano un disgusto intollerabile; non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di vivere a quel modo; miserabile, senza né probabilità né speranza di miglioramento, senza più il conforto che mi veniva dalla mia dolce bambina, senza alcun compenso, anche minimo, all'amarezza, allo squallore, all'orribile desolazione in cui ero piombato; per una risoluzione quasi improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi, con le cinquecento lire di Berto in tasca. Avevo pensato, via facendo, di recarmi a Marsiglia, dalla stazione ferroviaria del paese vicino, a cui m'ero diretto: giunto a Marsiglia, mi sarei imbarcato, magari con un biglietto di terza classe, per l'America, così alla ventura. Che avrebbe potuto capitarmi di peggio, alla fin fine, di ciò che avevo sofferto e soffrivo a casa mia? Sarei andato incontro, sì, ad altre catene, ma più gravi di quella che già stavo per strapparmi dal piede non mi sarebbero certo sembrate. E poi avrei veduto altri paesi, altre genti, altra vita, e mi sarei sottratto almeno all'oppressione che mi soffocava e mi schiacciava. Se non che, giunto a Nizza, m'ero sentito cader l'animo. Gl'impeti miei giovanili erano abbattuti da un pezzo: troppo ormai la noja mi aveva tarlato dentro, e svigorito il cordoglio. L'avvilimento maggiore m'era venuto dalla scarsezza del denaro con cui avrei dovuto avventurarmi nel bujo della sorte, così lontano, incontro a una vita affatto ignota, e senz'alcuna preparazione. Ora, sceso a Nizza, non ben risoluto ancora di ritornare a casa, girando per la città, m'era avvenuto di fermarmi innanzi a una grande bottega su l'Avenue de la Gare, che recava questa insegna a grosse lettere dorate: DÉPOT DE ROULETTES DE PRECISION Ve n'erano esposte d'ogni dimensione, con altri attrezzi del giuoco e varii opuscoli che avevano sulla copertina il disegno della roulette; Si sa che gl'infelici facilmente diventano superstiziosi, per quanto poi deridano l'altrui credulità e le speranze che a loro stessi la superstizione certe volte fa d'improvviso concepire e che non vengono mai a effetto, s'intende. Ricordo che io, dopo aver letto il titolo d'uno di quegli opuscoli: Méthode pour gagner à la roulette, mi allontanai dalla bottega con un sorriso sdegnoso e di commiserazione. Ma, fatti pochi passi, tornai indietro, e (per curiosità, via, non per altro!) con quello stesso sorriso sdegnoso e di commiserazione su le labbra, entrai nella bottega e comprai quell'opuscolo. Non sapevo affatto di che si trattasse, in che consistesse il giuoco e come fosse congegnato. Mi misi a leggere; ma ne compresi ben poco. « Forse dipende, » pensai, « perché non ne so molto, io, di francese. » Nessuno me l'aveva insegnato; avevo imparato da me qualche cosa, così, leggiucchiando nella biblioteca; non ero poi per nulla sicuro della pronunzia e temevo di far ridere, parlando. Questo timore appunto mi rese dapprima perplesso se andare o no; ma poi pensai che m'ero partito per avventurarmi fino in America, sprovvisto di tutto e senza conoscere neppur di vista l'inglese e lo spagnuolo; dunque via, con quel po' di francese di cui potevo disporre e con la guida di quell'opuscolo, fino a Montecarlo, li a due passi, avrei potuto bene avventurarmi. « Né mia suocera né mia moglie, » dicevo fra me, in treno, « sanno di questo po' di denaro, che mi resta in portafogli. Andrò a buttarlo lì, per togliermi ogni tentazione. Spero che potrò conservare tanto da pagarmi il ritorno a casa. E se no... » Avevo sentito dire che non difettavano alberi - solidi - nel giardino attorno alla bisca. In fin de' conti, magari mi sarei appeso economicamente a qualcuno di essi, con la cintola dei calzoni, e ci avrei fatto anche una bella figura. Avrebbero detto: « Chi sa quanto avrà perduto questo povero uomo! » Mi aspettavo di meglio, dico la verità. L'ingresso, sì, non c'è male; si vede che hanno avuto quasi l'intenzione d'innalzare un tempio alla Fortuna, con quelle otto colonne di marmo. Un portone e due porte laterali. Su queste era scritto Tirez: e fin qui ci arrivavo; arrivai anche al Poussez del portone, che evidentemente voleva dire il contrario; spinsi ed entrai. Pessimo gusto! E fa dispetto. Potrebbero almeno offrire a tutti coloro che vanno a lasciar lì tanto denaro la soddisfazione di vedersi scorticati in un luogo men sontuoso e più bello. Tutte le grandi città si compiacciono adesso di avere un bel mattatojo per le povere bestie, le quali pure, prive come sono d'ogni educazione, non possono goderne. E vero tuttavia che la maggior parte della gente che va lì ha ben altra voglia che quella di badare al gusto della decorazione di quelle cinque sale, come coloro che seggono su quei divani, giro giro, non sono spesso in condizione di accorgersi della dubbia eleganza dell'imbottitura. Vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la passione del giuoco ha sconvolto il cervello nel modo più singolare: stanno li a studiare il così detto equilibrio delle probabilità, e meditano seriamente i colpi da tentare, tutta un'architettura di giuoco, consultando appunti su le vicende de' numeri: vogliono insomma estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre; e son sicurissimi che, oggi o domani, vi riusciranno. Ma non bisogna meravigliarsi di nulla. - Ah, il 12! il 12! - mi diceva un signore di Lugano, pezzo d'omone, la cui vista avrebbe suggerito le più consolanti riflessioni su le resistenti energie della razza umana. - Il 12 è il re dei numeri; ed è il mio numero! Non mi tradisce mai! Si diverte, sì, a farmi dispetti, magari spesso; ma poi, alla fine, mi compensa, mi compensa sempre della mia fedeltà. Era innamorato del numero 12, quell'omone lì, e non sapeva più parlare d'altro. Mi raccontò che il giorno precedente quel suo numero non aveva voluto sortire neppure una volta; ma lui non s'era dato per vinto: volta per volta, ostinato, la sua posta sul 12; era rimasto su la breccia fino all'ultimo, fino all'ora in cui i croupiers annunziano: - Messieurs, aux trois dernier! Ebbene, al primo di quei tre ultimi colpi, niente; niente neanche al secondo; al terzo e ultimo, pàffete: il 12. - M'ha parlato! - concluse, con gli occhi brillanti di gioja - M'ha parlato! E' vero che, avendo perduto tutta la giornata, non gli eran restati per quell'ultima posta che pochi scudi; dimodoché, alla fine, non aveva potuto rifarsi di nulla. Ma che gl'importava? Il numero 12 gli aveva parlato! Sentendo questo discorso, mi vennero a mente quattro versi del povero Pinzone, il cui cartolare de' bisticci col seguito delle sue rime balzane, rinvenuto durante lo sgombero di casa, sta ora in biblioteca; e volli recitarli a quel signore: Ero già stanco di stare alla bada della Fortuna. La dea capricciosa dovea pure passar per la mia strada. E passò finalmente. Ma tignosa. E quel signore allora si prese la testa con tutt'e due le mani e contrasse dolorosamente, a lungo, tutta la faccia. Lo guardai, prima sorpreso, poi costernato. - Che ha? - Niente. Rido, - mi rispose. Rideva così! Gli faceva tanto male, tanto male la testa, che non poteva soffrire lo scotimento del riso. Andate a innamorarvi del numero 12! Prima di tentare la sorte - benché senz'alcuna illusione - volli stare un pezzo a osservare, per rendermi conto del modo con cui procedeva il giuoco. Non mi parve affatto complicato, come il mio opuscolo m'aveva lasciato immaginare. In mezzo al tavoliere, sul tappeto verde numerato, era incassata la roulette. Tutt'intorno, i giocatori, uomini e donne, vecchi e giovani, d'ogni paese e d'ogni condizione, parte seduti, parte in piedi, s'affrettavano nervosamente a disporre mucchi e mucchietti di luigi e di scudi e biglietti di banca, su i numeri gialli dei quadrati; quelli che non riuscivano ad accostarsi, o non volevano, dicevano al croupier i numeri e i colori su cui intendevano di giocare, e il croupier, subito, col rastrello disponeva le loro poste secondo l'indicazione, con meravigliosa destrezza; si faceva silenzio, un silenzio strano, angoscioso, quasi vibrante di frenate violenze, rotto di tratto in tratto dalla voce monotona sonnolenta dei croupiers: - Messieurs, faites vos jeux Mentre di là, presso altri tavolieri, altre voci ugualmente monotone dicevano: Le jeu est fait! Rien ne va plus! Alla fine, il croupier lanciava la pallottola sulla roulette - Tac tac tac... E tutti gli occhi si volgevano a lei con varia espressione: d'ansia, di sfida, d'angoscia, di terrore. Qualcuno fra quelli rimasti in piedi, dietro coloro che avevano avuto la fortuna di trovare una seggiola, si sospingeva per intravedere ancora la propria posta, prima che i rastrelli dei croupiers si allungassero ad arraffarla. La boule, alla fine, cadeva sul quadrante, e il croupier ripeteva con la solita voce la formula d'uso e annunziava il numero sortito e il colore. Arrischiai la prima posta di pochi scudi sul tavoliere di sinistra nella prima sala, così, a casaccio, sul venticinque; e stetti anch'io a guardare la perfida pallottola, ma sorridendo, per una specie di vellicazione interna, curiosa, al ventre. Cade la boule sul quadrante, e: - Vingtcinq! - annunzia il croupier. - Rouge, impair et passe! Avevo vinto! Allungavo la mano sul mio mucchietto moltiplicato, quanto un signore, altissimo di statura, da le spalle poderose troppo in sù, che reggevano una piccola testa con gli occhiali d'oro sul naso rincagnato, la fronte sfuggente, i capelli lunghi e lisci su la nuca, tra biondi e grigi, come il pizzo e i baffi, me la scostò senza tante cerimonie e si prese lui il mio denaro. Nel mio povero e timidissimo francese, volli fargli notare che aveva sbagliato - oh, certo involontariamente! Era un tedesco, e parlava il francese peggio di me, ma con un coraggio da leone: mi si scagliò addosso, sostenendo che lo sbaglio invece era mio, e che il denaro era suo. Mi guardai attorno, stupito: nessuno fiatava, neppure il mio vicino che pur mi aveva veduto posare quei pochi scudi sul venticinque. Guardai i croupiers: immobili, impassibili, come statue. « Ah sì? » dissi tra me e, quietamente, mi tirai su la mano gli altri scudi che avevo posato sul tavolino innanzi a me, e me la filai. « Ecco un metodo, pour gagner à la roulette, » pensai, « che non è contemplato nel mio opuscolo. E chi sa che non sia l'unico, in fondo! » Ma la fortuna, non so per quali suoi fini segreti, volle darmi una solenne e memorabile smentita. Appressatomi a un altro tavoliere, dove si giocava forte, stetti prima un buon pezzo a squadrar la gente che vi stava attorno: erano per la maggior parte signori in marsina; c'eran parecchie signore; più d'una mi parve equivoca; la vista d'un certo ometto biondo biondo, dagli occhi grossi, ceruli, venati di sangue e contornati da lunghe ciglia quasi bianche, non m'affidò molto, in prima; era in marsina anche lui, ma si vedeva che non era solito di portarla: volli vederlo alla prova: puntò forte: perdette; non si scompose: ripuntò anche forte, al colpo seguente: via! non sarebbe andato appresso ai miei quattrinucci. Benché, di prima colta, avessi avuto quella scottatura, mi vergognai del mio sospetto. C'era tanta gente là che buttava a manate oro e argento, come fossero rena, senza alcun timore, e dovevo temere io per la mia miseriola? Notai, fra gli altri, un giovinetto, pallido come di cera, con un grosso monocolo all'occhio sinistro il quale affettava un'aria di sonnolenta indifferenza; sedeva scompostamente; tirava fuori dalla tasca dei calzoni i suoi luigi; li posava a casaccio su un numero qualunque e, senza guardare, pinzandosi i peli dei baffetti nascenti aspettava che la boule cadesse; domandava allora al suo vicino se aveva perduto. Lo vidi perdere sempre. Quel suo vicino era un signore magro, elegantissimo, su i quarant'anni; ma aveva il collo troppo lungo e gracile, ed era quasi senza mento, con un pajo d'occhietti neri, vivaci, e bei capelli corvini, abbondanti, rialzati sul capo. Godeva, evidentemente, nel risponder di sì al giovinetto. Egli, qualche volta, vinceva. Mi posi accanto a un grosso signore, dalla carnagione così bruna, che le occhiaje e le palpebre gli apparivano come affumicate; aveva i capelli grigi, ferruginei, e il pizzo ancor quasi tutto nero e ricciuto; spirava forza e salute; eppure, come se la corsa della pallottola d'avorio gli promovesse l'asma, egli si metteva ogni volta ad arrangolare, forte, irresistibilmente. La gente si voltava a guardarlo; ma raramente egli se n'accorgeva: smetteva allora per un istante, si guardava attorno, con un sorriso nervoso, e tornava ad arrangolare, non potendo farne a meno, finché la boule non cadeva sul quadrante. A poco a poco, guardando, la febbre del giuoco prese anche me. I primi colpi mi andarono male. Poi cominciai a sentirmi come in uno stato d'ebbrezza estrosa curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise, incoscienti ispirazioni; puntavo, ogni volta, dopo gli altri, all'ultimo, là! e subito acquistavo la coscienza, la certezza che avrei vinto; e vincevo. Puntavo dapprima poco; poi, man mano, di più, di più, senza contare. Quella specie di lucida ebbrezza cresceva intanto in me, né s'intorbidava per qualche colpo fallito, perché mi pareva d'averlo quasi preveduto; anzi, qualche volta, dicevo tra me: « Ecco, questo lo perderò; debbo perderlo ». Ero come elettrizzato. A un certo punto, ebbi l'ispirazione di arrischiar tutto, là e addio; e vinsi. Gli orecchi mi ronzavano; ero tutto in sudore, e gelato. Mi parve che uno dei croupiers come sorpreso di quella mia tenace fortuna, mi osservasse. Nell'esagitazione in cui mi trovavo, sentii nello sguardo di quell'uomo come una sfida, e arrischiai tutto di nuovo, quel che avevo di mio e quel che avevo vinto, senza pensarci due volte: la mano mi andò su lo stesso numero di prima, il 35; fui per ritrarla; ma no, lì, lì di nuovo, come se qualcuno me l'avesse comandato. Chiusi gli occhi, dovevo essere pallidissimo. Si fece un gran silenzio, e mi parve che si facesse per me solo, come se tutti fossero sospesi nell'ansia mia terribile. La boule girò, girò un'eternità, con una lentezza che esasperava di punto in punto l'insostenibile tortura. Alfine cadde. M'aspettavo che il croupier, con la solita voce (mi parve lontanissima), dovesse annunziare: - Trentecinq, noir, impair et passe! Presi il denaro e dovetti allontanarmi, come un ubriaco. Caddi a sedere sul divano, sfinito; appoggiai il capo alla spalliera, per un bisogno improvviso, irresistibile, di dormire, di ristorarmi con un po' di sonno. E già quasi vi cedevo, quando mi sentii addosso un peso, un peso materiale, che subito mi fece riscuotere. Quanto avevo vinto? Aprii gli occhi, ma dovetti richiuderli immediatamente: mi girava la testa. Il caldo, là dentro, era soffocante. Come! Era già sera? Avevo intraveduto i lumi accesi. E quanto tempo avevo dunque giocato? Mi alzai pian piano; uscii. Fuori, nell'atrio, era ancora giorno. La freschezza dell'aria mi rinfrancò. Parecchia gente passeggiava lì: alcuni meditabondi, solitarii; altri, a due, a tre, chiacchierando e fumando. Io osservavo tutti. Nuovo del luogo, ancora impacciato, avrei voluto parere anch'io almeno un poco come di casa: e studiavo quelli che mi parevano più disinvolti; se non che, quando meno me l'aspettavo, qualcuno di questi, ecco, impallidiva, fissava gli occhi, ammutoliva, poi buttava via la sigaretta, e, tra le risa dei compagni, scappava via; rientrava nella sala da giuoco. Perché ridevano i compagni? Sorridevo anch'io, istintivamente, guardando come uno scemo. - A toi, mon chéri! - sentii dirmi, piano, da una voce femminile, un po' rauca. Mi voltai; e vidi una di quelle donne che già sedevano con me attorno al tavoliere, porgermi, sorridendo, una rosa. Un'altra ne teneva per sé: le aveva comperate or ora al banco di fiori, là, nel vestibolo. Avevo dunque l'aria così goffa e da allocco? M'assalì una stizza violenta; rifiutai, senza ringraziare, e feci per scostarmi da lei; ma ella mi prese, ridendo, per un braccio, e - affettando con me, innanzi a gli altri, un tratto confidenziale - mi parlò piano, affrettatamente. Mi parve di comprendere che mi proponesse di giocare con lei, avendo assistito poc'anzi ai miei colpi fortunati: ella, secondo le mie indicazioni, avrebbe puntato per me e per lei. Mi scrollai tutto: sdegnosamente, e la piantai lì in asso. Poco dopo, rientrando nella sala da giuoco, la vidi che conversava con un signore bassotto, bruno, barbuto, con gli occhi un po' loschi, spagnuolo all'aspetto. Gli aveva dato la rosa poc'anzi offerta a me. A una certa mossa d'entrambi, m'accorsi che parlavano di me; e mi misi in guardia. Entrai in un'altra sala; m'accostai al primo tavoliere, ma senza intenzione di giocare; ed ecco, ivi a poco, quel signore, senza più la donna, accostarsi anche lui al tavoliere, ma facendo le viste di non accorgersi di me. Mi posi allora a guardarlo risolutamente, per fargli intendere che m'ero bene accorto di tutto, e che con me, dunque, l'avrebbe sbagliata. Ma non aveva affatto l'apparenza d'un mariuolo, costui. Lo vidi giocare, e forte: perdette tre colpi consecutivi: batteva ripetutamente le pàlpebre, forse per lo sforzo che gli costava la volontà di nascondere il turbamento. Al terzo colpo fallito, mi guardò e sorrise. Lo lasciai lì, e ritornai nell'altra sala, al tavoliere dove dianzi avevo vinto. I croupiers s'erano dati il cambio. La donna era lì al posto di prima. Mi tenni addietro, per non farmi scorgere, e vidi ch'ella giocava modestamente, e non tutte le partite. Mi feci innanzi; ella mi scorse: stava per giocare e si trattenne, aspettando evidentemente che giocassi io, per puntare dov'io puntavo. Ma aspettò invano. Quando il croupier disse: - Le jeu est fait! Rien ne va plus! - la guardai, ed ella alzò un dito per minacciarmi scherzosamente. Per parecchi giri non giocai; poi, eccitatomi di nuovo alla vista degli altri giocatori, e sentendo che si raccendeva in me l'estro di prima, non badai più a lei e mi rimisi a giocare. Per qual misterioso suggerimento seguivo così infallibilmente la variabilità imprevedibile nei numeri e nei colori? Era solo prodigiosa divinazione nell'incoscienza, la mia? E come si spiegano allora certe ostinazioni pazze, addirittura pazze, il cui ricordo mi desta i brividi ancora, considerando ch'io cimentavo tutto, tutto, la vita fors'anche, in quei colpi ch'eran vere e proprie sfide alla sorte? No, no: io ebbi proprio il sentimento di una forza quasi diabolica in me, in quei momenti, per cui domavo, affascinavo la fortuna, legavo al mio il suo capriccio. E non era soltanto in me questa convinzione; s'era anche propagata negli altri, rapidamente; e ormai quasi tutti seguivano il mio giuoco rischiosissimo. Non so per quante volte passò il rosso, su cui mi ostinavo a puntare: puntavo su lo zero, e sortiva lo zero. Finanche quel giovinetto, che tirava i luigi dalla tasca dei calzoni, s'era scosso e infervorato; quel grosso signore bruno arrangolava più che mai. L'agitazione cresceva di momento in momento attorno al tavoliere; eran fremiti d'impazienza, scatti di brevi gesti nervosi, un furor contenuto a stento, angoscioso e terribile. Gli stessi croupiers avevano perduto la loro rigida impassibilità. A un tratto, di fronte a una puntata formidabile, ebbi come una vertigine. Sentii gravarmi addosso una responsabilità tremenda. Ero poco men che digiuno dalla mattina, e vibravo tutto, tremavo dalla lunga violenta emozione. Non potei più resistervi e, dopo quel colpo, mi ritrassi, vacillante. Sentii afferrarmi per un braccio. Concitatissimo, con gli occhi che gli schizzavano fiamme, quello spagnoletto barbuto e atticciato voleva a ogni costo trattenermi - Ecco: erano le undici e un quarto; i croupiers invitavano ai tre ultimi colpi: avremmo fatto saltare la banca! Mi parlava in un italiano bastardo, comicissimo; poiché io, che non connettevo già più, mi ostinavo a rispondergli nella mia lingua: - No, no, basta! non ne posso più. Mi lasci andare, caro signore. Mi lasciò andare; ma mi venne appresso. Salì con me nel treno di ritorno a Nizza, e volle assolutamente che cenassi con lui e prendessi poi alloggio nel suo stesso albergo. Non mi dispiacque molto dapprima l'ammirazione quasi timorosa che quell'uomo pareva felicissimo di tributarmi, come a un taumaturgo. La vanità umana non ricusa talvolta di farsi piedistallo anche di certa stima che offende e l'incenso acre e pestifero di certi indegni e meschini turiboli. Ero come un generale che avesse vinto un'asprissima e disperata battaglia, ma per caso, senza saper come. Già cominciavo a sentirlo, a rientrare in me, e man mano cresceva il fastidio che mi recava la compagnia di quell'uomo. Tuttavia, per quanto facessi, appena sceso a Nizza, non mi riuscì di liberarmene: dovetti andar con lui a cena. E allora egli mi confessò che me l'aveva mandata lui, là, nell'atrio del casino, quella donnetta allegra, alla quale da tre giorni egli appiccicava le ali per farla volare, almeno terra terra; ali di biglietti di banca; dava cioè qualche centinajo di lire per farle tentar la sorte. La donnetta aveva dovuto vincer bene, quella sera, seguendo il mio giuoco, giacché, all'uscita, non s'era più fatta vedere. - Che podo far? La póvara avrà trovato de meglio. Sono viechio, ió. E agradecio Dio, ántes, che me la son levada de sobre! Mi disse che era a Nizza da una settimana e che ogni mattina s'era recato a Montecarlo, dove aveva avuto sempre, fino a quella sera, una disdetta incredibile. Voleva sapere com'io facessi a vincere. Dovevo certo aver capito il giuoco o possedere qualche regola infallibile. Mi misi a ridere e gli risposi che fino alla mattina di quello stesso giorno non avevo visto neppure dipinta una roulette, e che non solo non sapevo affatto come ci si giocasse, ma non sospettavo nemmen lontanamente che avrei giocato e vinto a quel modo. Ne ero stordito e abbagliato più di lui. Non si convinse. Tanto vero che, girando abilmente il discorso (credeva senza dubbio d'aver da fare con una birba matricolata) e parlando con meravigliosa disinvoltura in quella sua lingua mezzo spagnuola e mezzo Dio sa che cosa, venne a farmi la stessa proposta a cui aveva tentato di tirarmi, nella mattinata, col gancio di quella donnetta allegra. - Ma no, scusi! - esclamai io, cercando tuttavia d'attenuare con un sorriso il risentimento. - Può ella sul serio ostinarsi a credere che per quel giuoco là ci possano esser regole o si possa aver qualche segreto? Ci vuol fortuna! ne ho avuta oggi; potrò non averne domani, o potrò anche averla di nuovo; spero di sì! - Ma porqué lei, - mi domandò, - non ha voluto occi aproveciarse de la sua forturna? - Io, aprove... - Si, come puedo decir? avantaciarse, voilà! - Ma secondo i miei mezzi, caro signore! - Bien! - disse lui. - Podo ió por lei. Lei, la fortuna, ió metaró el dinero. - E allora forse perderemo! - conclusi io, sorridendo. - No, no... Guardi! Se lei mi crede davvero così fortunato, - sarò tale al giuoco; in tutto il resto, no di certo - facciamo così: senza patti fra noi e senza alcuna responsabilità da parte mia, che non voglio averne, lei punti il suo molto dov'io il mio poco, come ha fatto oggi; e, se andrà bene... Non mi lasciò finire: scoppiò in una risata strana, che voleva parer maliziosa, e disse: - Eh no, segnore mio! no! Occi, sì, l'ho fatto: no lo fado domani seguramente! Si lei punta forte con migo, bien! si no, no lo fado seguramente! Gracie tante! Lo guardai, sforzandomi di comprendere che cosa volesse dire: c'era senza dubbio in quel suo riso e in quelle sue parole un sospetto ingiurioso per me. Mi turbai, e gli domandai una spiegazione. Smise di ridere; ma gli rimase sul volto come l'impronta svanente di quel riso. - Digo che no, che no lo fado, - ripeté. - No digo altro! Battei forte una mano su la tavola e, con voce alterata, incalzai: - Nient'affatto! Bisogna invece che dica, spieghi che cosa ha inteso di significare con le sue parole e col suo riso imbecille! Io non comprendo! Lo vidi, man mano che parlavo, impallidire e quasi rimpiccolirsi; evidentemente stava per chiedermi scusa. Mi alzai, sdegnato, dando una spallata. - Bah! Io disprezzo lei e il suo sospetto, che non arrivo neanche a immaginare! Pagai il mio conto e uscii. Ho conosciuto un uomo venerando e degno anche, per le singolarissime doti dell'intelligenza, d'essere grandemente ammirato: non lo era, né poco né molto, per un pajo di calzoncini, io credo, chiari, a quadretti, troppo aderenti alle gambe misere, ch'egli si ostinava a portare. Gli abiti che indossiamo, il loro taglio, il loro colore, possono far pensare di noi le più strane cose. Ma io sentivo ora un dispetto tanto maggiore, in quanto mi pareva di non esser vestito male. Non ero in marsina, è vero, ma avevo un abito nero, da lutto, decentissimo. E poi, se - vestito di questi stessi panni - quel tedescaccio in prima aveva potuto prendermi per un babbeo, tanto che s'era arraffato come niente il mio denaro; come mai adesso costui mi prendeva per un mariuolo? « Sarà forse per questo barbone, » pensavo, andando, « o per questi capelli troppo corti... » Cercavo intanto un albergo qualunque, per chiudermi a vedere quanto avevo vinto. Mi pareva d'esser pieno di denari: ne avevo un po' da per tutto, nelle tasche della giacca e dei calzoni e in quelle del panciotto; oro, argento, biglietti di banca; dovevano esser molti, molti! Sentii sonare le due. Le vie erano deserte. Passò una vettura vuota; vi montai. Con niente avevo fatto circa undicimila lire! Non ne vedevo da un pezzo, e mi parvero in prima una gran somma. Ma poi, pensando alla mia vita d'un tempo, provai un grande avvilimento per me stesso. Eh che! Due anni di biblioteca, col contorno di tutte le altre sciagure, m'avevan dunque immiserito a tal segno il cuore? Presi a mordermi col mio nuovo veleno, guardando il denaro lì sul letto: « Va', uomo virtuoso, mansueto bibliotecario, va', ritorna a casa a placare con questo tesoro la vedova Pescatore. Ella crederà che tu l'abbia rubato e acquisterà subito per te una grandissima stima. O va' piuttosto in America, come avevi prima deliberato, se questo non ti par premio degno alla tua grossa fatica. Ora potresti, così munito. Undicimila lire! Che ricchezza! » Raccolsi il denaro; lo buttai nel cassetto del comodino, e mi coricai. Ma non potei prender sonno. Che dovevo fare, insomma? Ritornare a Montecarlo, a restituir quella vincita straordinaria? o contentarmi di essa e godermela modestamente? ma come? avevo forse più animo e modo di godere, con quella famiglia che mi ero formata? Avrei vestito un po' meno poveramente mia moglie, che non solo non si curava più di piacermi, ma pareva facesse anzi di tutto per riuscirmi incresciosa, rimanendo spettinata tutto il giorno, senza busto, in ciabatte, e con le vesti che le cascavano da tutte le parti. Riteneva forse che, per un marito come me, non valesse più la pena di farsi bella? Del resto, dopo il grave rischio corso nel parto, non s'era più ben rimessa in salute. Quanto all'animo, di giorno in giorno s'era fatta più aspra, non solo contro me, ma contro tutti. E questo rancore e la mancanza d'un affetto vivo e vero s'eran messi come a nutrire in lei un'accidiosa pigrizia. Non s'era neppure affezionata alla bambina, la cui nascita insieme con quell'altra, morta di pochi giorni, era stata per lei una sconfitta di fronte al bel figlio maschio d'Oliva, nato circa un mese dopo, florido e senza stento, dopo una gravidanza felice. Tutti quei disgusti poi e quegli attriti che sorgono, quando il bisogno, come un gattaccio ispido e nero s'accovaccia su la cenere d'un focolare spento, avevano reso ormai odiosa a entrambi la convivenza. Con undicimila lire avrei potuto rimetter la pace in casa e far rinascere l'amore già iniquamente ucciso in sul nascere dalla vedova Pescatore? Follie! E dunque? Partire per l'America? Ma perché sarei andato a cercar tanto lontano la Fortuna, quand'essa pareva proprio che avesse voluto fermarmi qua, a Nizza, senza ch'io ci pensassi, davanti a quella bottega d'attrezzi di giuoco? Ora bisognava ch'io mi mostrassi degno di lei, dei suoi favori, se veramente, come sembrava, essa voleva accordarmeli. Via, via! O tutto o niente. In fin de' conti, sarei ritornato come ero prima. Che cosa erano mai undicimila lire? Così il giorno dopo tornai a Montecarlo. Ci tornai per dodici giorni di fila. Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore, più favoloso che straordinario, della fortuna: ero fuori di me, matto addirittura; non ne provo stupore neanche adesso, sapendo pur troppo che tiro essa m'apparecchiava, favorendomi in quella maniera e in quella misura. In nove giorni arrivai a metter sù una somma veramente enorme giocando alla disperata: dopo il nono giorno cominciai a perdere, e fu un precipizio. L'estro prodigioso, come se non avesse più trovato alimento nella mia già esausta energia nervosa, venne a mancarmi. Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi a tempo. Mi arrestai, mi riscossi, non per mia virtù, ma per la violenza d'uno spettacolo orrendo, non infrequente, pare, in quel luogo. Entravo nelle sale da giuoco, la mattina del dodicesimo giorno, quando quel signore di Lugano, innamorato del numero 12, mi raggiunse, sconvolto e ansante, per annunziarmi, più col cenno che con le parole, che uno s'era poc'anzi ucciso là, nel giardino. Pensai subito che fosse quel mio spagnuolo, e ne provai rimorso. Ero sicuro ch'egli m'aveva ajutato a vincere. Nel primo giorno, dopo quella nostra lite, non aveva voluto puntare dov'io puntavo, e aveva perduto sempre; nei giorni seguenti, vedendomi vincere con tanta persistenza, aveva tentato di fare il mio giuoco; ma non avevo voluto più io, allora: come guidato per mano dalla stessa Fortuna, presente e invisibile, mi ero messo a girare da un tavoliere all'altro. Da due giorni non lo avevo più veduto, proprio dacché m'ero messo a perdere, e forse perché lui non mi aveva più dato la caccia. Ero certissimo, accorrendo al luogo indicatomi, di trovarlo lì, steso per terra, morto. Ma vi trovai invece quel giovinetto pallido che affettava un'aria di sonnolenta indifferenza, tirando fuori i luigi dalla tasca dei calzoni per puntarli senza nemmeno guardare. Pareva più piccolo, lì in mezzo al viale: stava composto, coi piedi uniti, come se si fosse messo a giacere prima, per non farsi male, cadendo; un braccio era aderente al corpo; l'altro, un po' sospeso, con la mano raggrinchiata e un dito, l'indice, ancora nell'atto di tirare. Era presso a questa mano la rivoltella; più là, il cappello. Mi parve dapprima che la palla gli fosse uscita dall'occhio sinistro, donde tanto sangue, ora rappreso, gli era colato su la faccia. Ma no: quel sangue era schizzato di lì, come un po' dalle narici e dagli orecchi; altro, in gran copia, n'era poi sgorgato dal forellino alla tempia destra, su la rena gialla del viale, tutto raggrumato. Una dozzina di vespe vi ronzavano attorno; qualcuna andava a posarsi anche lì, vorace, su l'occhio. Fra tanti che guardavano, nessuno aveva pensato a cacciarle via. Trassi dalla tasca un fazzoletto e lo stesi su quel misero volto orribilmente sfigurato. Nessuno me ne seppe grado: avevo tolto il meglio dello spettacolo. Scappai via; ritornai a Nizza per partirne quel giorno stesso. Avevo con me circa ottantaduemila lire. Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di quello stesso giorno, dovesse accadere anche a me qualcosa di simile.

VI. ... CLICK, CLICK, CLICK, CLICK...

Of all the things and people in the great salon, the ivory ball, gracefully circling the roulette in a direction opposite to the whirl of the quadrant, seemed alone to be at play: Click, click, click, click.... The ball alone! Surely this could not be play to the people standing and sitting there with their eyes glued upon that ball, tense in the torment occasioned them by its caprices. To that same ball, on the yellow squares of the table just below, many many hands had brought votive offerings of gold; and, all around, many other hands were nervously fingering more gold—the gold of the next play; while suppliant eyes seemed to pursue the ball in its swift but graceful gyrations: “Where it be thy pleasure, little ball of ivory! Where it be thy pleasure, delightful, cruel, Divinity of Chance!” I had wandered to Monte Carlo by merest accident—after one of the usual scenes between me, my mother−in−law, and my wife. In the harrowing torture of my recent bereavement, I had no endurance left for this life of quarreling, of bitter nagging, of physical and moral squalor absolute. One day in sheer disgust and quite without premeditation, I went to the old volume where I had put the money from Roberto, transferred the five hundred lire to my pocket, put on my hat and coat and took to the road. I started out, on foot, with not a thought except that of escape from the hell in which I had been living. Mechanically, my steps turned toward a neighboring village through which the railroad passed. On the way thither a plan formed vaguely in my mind. I would go to Marseilles, and take a steamer thence to one of the Americas. The money I had with me should suffice—for the steerage at least. Beyond that, I might trust to luck. What could possibly happen to me anywhere worse than what I had been through? Perhaps beyond the horizon ahead a new slavery awaited me—but with heavier chains, I asked myself, than those I had just snapped from my feet? It would be interesting to see a bit of the world, at any rate. And I might even hope to shake off the deadly oppression that had settled on my spirit and was inhibiting all my impulses of ambition and action. To Marseilles, then! But before I got to Nice my courage failed. Alas! Where was that old capacity for decision that had been one of the virtues of my boyhood? Discouragement must have eaten deeply into the fibre of my being. My will seemed to have decayed, to have been paralysed, in all my sufferings. Five hundred lire! Could I launch out into the unknown on that miserable guarantee? Had I the mental training to win a successful battle for existence in a new and strange environment? My train was to make a long stop at Nice. When I alighted there, I had virtually decided to go no farther, though I was not resolved to go back home. I compromised by wandering about through the town. Somewhere on the Avenue de la Gare I stopped in front of a shop with a large gilded sign: Dépôt de Roulettes de Précision! Wheels of every description were on show in the windows, with other accessories of gaming, among these, a number of manuals, their paper covers ornamented with pictures of the roulette. It has often been observed that unhappy people fall ready victims to superstition; however prone they may be thereafter to laugh at the credulity of others and the hopes which belief in luck aroused suddenly in themselves (hopes inevitably deceived, of course!). Well, I remember that when I had read the title of one of those manuals of gambling: “A Sure Method for Winning at Roulette,” I walked away from the shop window with a smile of pitying contempt on my lips. Why was it then, that a few steps further on, I stopped, turned around, went back to the shop, and smiling with the same pitying contempt for the stupidity of others, bought a copy of that very manual? I could make neither head nor tail to what it said. I failed to get a clear idea of what roulette was like, or even of the exact construction of the wheel. But I read on. “Guess my trouble is with French,” I finally concluded. I had never had a lesson in that language. Back in the Library I had looked a grammar through and worked out a text here and there. But I had no notion of French pronounciation, and I had never uttered a word in the strange tongue for fear of making people laugh. This latter preoccupation left me undecided for some time as to whether I ought to enter a gambling house. But then I thought: “Here you were a moment ago starting off for the Americas with barely a cent to your name and without a word of Spanish or English inside your head. A man as brave as that ought to be brave enough to go as far as the Casino: you know a little French! Besides you have the manual....” Monte Carlo, I further reflected, was only a short walk from Nice. “Neither my wife nor my mother−in−law know about this money Roberto sent me. I think I'll go and lose it there. That will take away all temptation to run away for good. Perhaps I can manage to save enough for a ticket home; but even if I don't....” I had heard that the Casino had a beautiful garden with tall—and strong—trees. In the worst case I could take my belt and hang myself to one of these. Dying gratis, and with dignity, that would be indeed! “Who knows how much the poor devil may have lost?” people would say, on finding me! To tell the truth, I was disappointed in the Casino. The portal, perhaps, was not so bad. Those eight marble columns really made you feel that the architect intended a sort of Temple to the Goddess Fortune. Here, then, was a big door, with side entrances, one to the right and one to the left. My French helped me over the TIREZ inscribed on the latter; and by inference I solved the POUSSEZ on the one in front of me: if “tirez” meant “pull,” I could risk “push” on the other. So I pushed, and I was admitted to the building. All in bad taste! And something, I think, should be done about it! People, who go to Monte Carlo to leave good money behind, ought at least to have the satisfaction of being skinned in a place somewhat less pretentious and a whole lot more beautiful. All wideawake towns in Europe are putting up the most attractive slaughterhouses these days—a courtesy wasted, so far as I can see, on the poor unschooled animals that are killed in them. The fact is, of course, that the great majority of players at Monte Carlo have something else on their minds than the decorations of those five great halls; just as the idlers sitting on the sofas all around are often not in a condition to notice the questionable taste of the upholstery. * * * Before trying my own luck (with no great hopes, I may say) I thought it would be better to look on a while, and familiarize myself with the manner of the game. And this was by no means so complicated as my manual had led me to suppose. In a few minutes, indeed, I thought I had mastered it. I went, accordingly, to the first table on the left in the first room. I laid a few francs on a number that came into my head: twenty−five. Most of the people about me followed the whirling ball with a strained nervous expectation. I could not conceal my interest in its flight entirely; but I smiled nonchalantly, despite a curious tickling sensation that seemed to creep around the inside lining of my chest. The ball slowed up and finally fell upon the quadrant. “Vingt−cinq,” the croupier called; “rouge, impair, et passe!” I had won. I was reaching out to gather up the pile of chips that were tossed upon my ante, when a tall strapping fellow who had been standing behind me pushed my hand aside and gathered in my money. In my faltering French I tried to make him understand that he had made a mistake—oh, yes, by mistake, not intentionally, of course! The man was a German, and spoke French even more falteringly than I. But he had a brazen courage to make up for any deficiencies in his grammar. He came back at me with vigor, asserting that the mistake was mine and the money his. I looked around the table helplessly. No one breathed a word, not even a neighbor who had made some comment when I put my money on the 25. I looked appealingly at the croupiers in charge of the table. They sat there as passive as statues. “Ah, I see,” said I to myself, gathering up the chips I had prepared for another bet. “Here we have a sure method for winning at roulette! Pity they forgot to mention it in the manual. I imagine it's the only sure one, in the end!” I went to another table, where the game was running high, and stood for some time examining the people seated around it—gentlemen in formal dress for the most part, and several women, more than one of whom seemed of questionable calling. My interest fell, in particular, upon a short light−haired man with big blue eyes, the balls of which were streaked with veins of red, while the lashes were long and almost white. I did not like the looks of him at first; he too was in formal clothes, but such stylish attire did not seem to be in tone on him exactly. I thought him worth watching, however. He laid a heavy stake and lost. He plunged again still more heavily. Again he lost. Not a trace of emotion was visible on his face. “There!” I reflected mentally; “he's not the kind of person to steal the penny or two I risk!” And a certain shame came over me, besides, despite my unfortunate experience at the other table. Here people were throwing money away by the fistfuls, and without a shadow of fear! What a cheap sort I must be to worry about the few francs in my pocket! And here, next to this man, with an empty chair between, sat a young fellow, his face as pale as wax, a huge monocle on his left eye. He was using only green chips, but he was throwing his money down with an affectation of bored indifference and showing no interest in the ball. Indeed he sat half turned away from the table, twirling his mustache. At the end of a play he would ask a neighbor if he had lost. And he lost every time. How the money was flying there! Gradually the excitement of the game seized on me as well. I sat down between the two men and began to place my chips now on this number and now on that. My first bets all went against me; but then suddenly I began to feel a very strange sensation creeping over me—a sort of inspired supernatural intoxication, that took me out of myself, making me the automatic agent of unconscious intuitions from within. Why this number rather than any other? “There, that square at the end—on the right! Yes!” I was absolutely sure the number was going to win; and win it did. My bets were small at first; but soon I was throwing out my money without counting it. The longer I played, the clearer my strange power of drunken divination seemed to grow, nor did my confidence wane when I suffered a loss or two; in fact, I imagined I had foreseen such breaks in my luck, and I had even said to myself more than once: “Yes, this time I am going to lose—I must lose!” And now I was quite beside myself: I had a sudden impulse to risk everything I had, my original bet and all that I had won. My guess came out! It was getting too much for me: my ears were buzzing and I began to sweat. One of the croupiers noticed my persistent good fortune. I thought I caught a challenge in the glance he gave me. Never mind! Let's try again! Again I pushed everything I had upon the board. I remember that my hand stopped on the number 35, the same number that had won before. That was a bad chance! I started to change; but no, a voice within me seemed to whisper: “Stay where you are!” I closed my eyes, and I must have grown as pale as death. A great silence fell over the table as though everyone were sharing in my terrible anxiety. The ball started round and round. And round and round it whirled! Would it never stop? Now it was going a little more slowly, but that seemed only to exasperate my torture. Click! It had fallen. I did not open my eyes. But I knew what the croupier was going to say (his voice when it sounded seemed to come from far far away as from a distant world): “Trente−cinq, noir, impair, et passe!” I raked in the pile of money and left the table. I had to go! I was too weak to continue playing; and when I walked it was with the stagger of a drunken man. I collapsed on a divan, at the end of my endurance, my head sinking on the back of a chair. Yes! Sleep! I needed sleep! A little nap would do me good. And I was almost yielding, when a sudden sense of heaviness about me restored my consciousness with a shock. How much had I won? I looked up, but I had to close my eyes again. The great hall of the Casino seemed to be whirling dizzily round and round. How hot it was in there! How stifling! A breath of air! Yes, a breath of air! What, dark already? The lights were coming on! How long had I been playing? I rose with difficulty to my feet, and left the room. * * * Outside, in the atrium, night had not yet fallen; and a breath of the cool bracing air revived me. A number ef people were about, some of them walking up and down by themselves, concerned with their own thoughts; others in groups of two or three, chatting, smoking, joking. They were all objects of interest to me. I was still a stranger to the Casino, and conscious of looking the greenhorn too. I began carefully to watch such as appeared most at their ease. But how could one ever tell? When I should least have expected such a thing, one of them would suddenly fall silent, toss his cigarette aside, and pale, haggard, distraught, start off toward the play rooms again, pursued by the laughter of his companions. “What was the joke? I could not see; but instinctively, I would join in the laugh, looking after the fugitive with a silly smile on my face. “A toi, mon chéri!” I heard a harsh female voice whisper behind me. I turned around. It was one of the women who had been sitting near me at the table. She was holding out a rose toward me, keeping another for herself. She had just bought them at the buffet there in the outer hall. A flash of anger came over me! So I did look like an easy mark! I refused the flower without a “thank you,” and started to walk away. But she broadened her smile into a frank laugh, and taking me confidentially by the arm she began to talk to me hurriedly and in a half whisper. She was proposing, so I understood after a fashion, that we play together, in view of the luck she had seen me having. I would choose the numbers and she would divide earnings fifty fifty with me. I tore my arm loose, with a show of anger, and left her standing there. Shortly afterward, I wandered back into the gaming rooms. There I saw the same woman again, but talking now with a short dark−compiexioned fellow with a bushy beard—a Spaniard, as I judged—whose appearance I did not like. She had given him the rose just previously offered to me. They both winced at my approach, and I was sure they had been talking about me. I decided to keep on my guard. Sauntering off toward another room, I approached the first table there, without however intending to play. Sure enough! I had not been there long when the Spaniard put in an appearance, but without the woman, taking up a position near me, though pretending not to be aware of my presence. I turned and fixed my eyes frankly upon him, to let him blow that I had noticed his attentions and was not to be trifled with. And yet, as I now began to think, he might not be the swindler I was taking him for! He laid three heavy bets in succession, and lost all three, winking his eyelids furiously at each defeat, perhaps in an effort to conceal the shock of disappointment. After the third throw, he looked up at me and smiled. I left him there and went back into the other room to the table where I had made my heavy winnings. The croupiers had changed. The woman was again in the seat where I had observed her first. I kept off some distance from the table so that she would not see me. Her bets were all small, and she did not play every round. I stepped forward to the table. She was about to lay down a chip; but when she noticed me, she withheld her money with the intention, evidently, of putting it on the number I should choose. But I did not play. 'As the croupier called “Le jeu est fait! Rien ne va plus!” I looked at her: she was shaking a finger at me with a smile of reproach. I kept out of the game for some time; but gradually the spell caught me again. The animation about the table was too pervasive. Besides I seemed to feel my strange inspiration coming over me again. I sat down in the first chair that became empty, forgot all about the woman, and began to play. What was the source of that mysterious foresight I had for choosing the right number and color unfailingly? Was it just luck—the wildest craziest luck man ever had? Was it a sort of miraculous divination beyond the control of my consciousness? How explain, at any rate, certain obstinate obsessions of mine, the very absurdity of which now makes my hair stand on end, as I reflect that I was risking everything, perhaps even my life, on some of those bets that were just mad impudent challenges to Fortune? However you may account for it, I know how I felt: I felt the presence of a devilish power within me, which, at that particular time, made Fortune my captive, rendered her obedient to my every gesture and bent her caprice to my will. I felt this, I say; but I was not the only one to feel it. Others about the table soon acquired the same conviction; and shortly everybody was betting on the numbers that I kept choosing for risks of the most hazardous kind. Why was it I stuck to red for turn after turn—and why did red always come out? And why was it I would switch to zero, just as zero was about to fall? Even the young man with the monocle began at last to take a direct interest in the game; and a fat man beside him to pant louder than ever. A fever of excitement ran about our table—shivers of impatience, moments of nervous gasping suspense, bursts of anxious expectancy that attained climaxes of veritable fury. Eventually the croupiers themselves lost their stiff, impassive, well−mannered indifference. Suddenly, after pushing a pile of chips forward on the table, I felt myself give way. A sense of tremendous responsibility came over me. I had eaten practically nothing since morning; and all the emotions of that violent evening had exhausted my strength. My head began to swim, and I could not go on. I won the bet, but I drew back from the table. And now I felt a strong grip fasten itself upon my arm. It was that short, squatty, bushy−faced Spaniard, beside himself with excitement, and determined, at all costs, to make me continue playing. “Look,” he said. “Eleven and fifteen. We come to last three rounds. Play! We break bank!” He had decided I was an Italian and was addressing me in my own language, but with a Spanish brogue that, done for as I was, made me laugh. I had just enough strength left to persist mechanically, obstinately, in a refusal: “No, no! I've had enough! I've had enough! Let me go, sir! Let me go, sir!” He let me go; but he followed me, even boarding my train to accompany me back to Nice. He insisted that I take a midnight meal with him, and engage a room in the hotel where he was living. At first I was not loath to accept the almost awe−struck admiration which this fellow had for me as for a master of divination. I have noticed that human vanity is inclined to sniff with pleasure even the acrid and stupefying incense that rises from the most petty and miserable of censers. My own case was that of a general who by sheer luck, quite beyond any provision or plan of his own, has stumbled on a decisive victory. And this reflection began actually to take form in my own mind, as, little by little, I came out of my bewilderment, recovered a part of my strength, and grew conscious of the annoyance this man's company was really giving me. However, though I bade him good−night in the station at Nice, he would have none of it. He took me off to supper with him by main force. And then it was that he confessed to having sent the woman to me in the lobby of the Casino. She was one of the habitual idlers about the place; and for three days he had been providing her with funds for “a start in life”—giving her, that is, a hundred francs every now and then, on the chance that eventually she might make a real killing. Following my numbers that evening, she must have won something at last; for ihe was not waiting for the Spaniard in the lobby: “What I can do?” said he resignedly. “She probably find a better looking man. I too old! Quiza, I thank God, segnore, He send her away so soon!” My importunate friend had been at Nice for a week or more; and every morning he had gone to the Casino. Up to that evening, he had done nothing but lose. What he wanted now was the secret of my success: either I must have learned the game to the bottom or have devised an unfailing system. This made me laugh; and I assured him I had never seen a roulette wheel before that morning, and that I was as surprised as any one else at my unheard−of good luck. But he was not convinced. He decided, I imagine, that he was dealing with a sharper of no ordinary merits; for he returned to the attack after a skillful detour; and in his curiously fluent gibberish, half Spanish, half God knows what, eventually came out with the proposal he had tried to make to me that evening through the girl. “But, my dear sir,” I answered, half amused and half angered by his insistence, and the assumptions it implied. “I have no system: how can there he any science to a game like that? I had luck, that's all. Tomorrow I may lose everything. On the other hand I may win again—as I hope I shall!” “But why you not provech today of your good fortune?” “Provech?” “Yes, provech, profit, how you say?” “Why, I did, considering the few francs I started with!” “Good! I pay for you. You, luck, I, money?” “But I might lose it all for you! Look here, sefior: if you are so sure I'm going to win, you do tomorrow just as you did today: put your money on my numbers; then if I lose, you can't blame me; and if I win...” He did not let me finish: “Eh no, segnore; no; today, yes, I do this. But tomorrow, no, I do not! You bet conmigo strong? Good! I play! If no, I no play seguramente. Muchas gracias!” I looked at the man, trying to fathom the meaning of all this chatter. The one thing certain was that he suspected me of some trick or other. I flushed and demanded an explanation. He suppressed the shrewd smile that had been playing about his lips, although the leer in it continued to dominate his expression: “I say no—I no play. No digo altro!” I brought my fist down solidly on the table in front of me. “No, you don't get out of this that way!” I answered angrily—“What's the meaning of what you said, and of that fool smile of yours? I don't see anything to laugh at!” He grew pale, as I raised my voice, and seemed to cringe before me. I felt sure an apology was coming. However, I shrugged my shoulders and rose from the table: “Anyhow, I don't care what you meant! But I want nothing more to do with you!” I paid my bill and left the restaurant. * * * I once knew a man who, from his extraordinary endowments of intellect, was worthy of the most venerating admiration. He never received any whit of it, however, and all on account of a pair of checkered trousers (gray and black if I remember rightly and fitting too tight to his legs) which he would wear, come what may. Our clothes have something, it may be about their cut, it may be about their color, which gives people the strangest impressions of us. Take my present case. I thought I had a right to be put out. I was not in a dinner coat, of course; but I was quite decently dressed in a black suit in keeping with my state of mourning. Well, from the very same outfit that miserable German thought I was enough of an idiot to risk his stealing my pot; while now this Spaniard took me for a rascal so deeply dyed in the wool that he was afraid of me! “Must be these whiskers,” I concluded as I hurried along, “or the way my hair is cut. I am clipped pretty close. On the other hand, my beard is a bit too scraggly!” Meanwhile I was anxious to get to a hotel to see how much I had really won. It. was two o'clock by this time and the streets were deserted. Eventually, a cab came rattling by. I hailed it, and got in. I was a walking cash−box; I had money in the pockets of my coat, in the pockets of my vest, in the pockets of my trousers, everywhere—gold, silver, paper. The total must have been an enormous one. As soon as I reached a room, I spread my earnings out on the bed. Eleven thousand lire! I had not seen any money for such a long time that I thought it was a fortune that had thus come to me almost without effort on my part. But then my mind reverted to the good old days of the prosperity of my family, and a bitter sense of my degradation came over me. Indeed! Two years there in that library—. along with my other misfortunes—had so crushed me that a paltry two thousand dollars could look like wealth? My old feeling of discouragement returned. “Here, you tame spineless virtuous librarian,” I apostrophized, looking at all my gold contemptuously. “Run along home and pass this over to the widow Pesca−tore. She will be sure you stole it; and your stock will go up in her esteem on that account. Or rather, sail on to America as you had planned, if this windfall does not seem a fitting reward for your courageous efforts hitherto. You could, now, you see; you have two thousand dollars to bank on! What a millionaire!” I swept the money together, tossed it into a drawer of my dresser, and went to bed. But I could not get to sleep. What was I really to do? Go back to Monte Carlo and lose the money I had made? Or should I rest content with this one stroke of fortune, lay it aside somewhere, and enjoy it modestly as occasion offered? Enjoy it! A pretty thought for a man stuck with a family like mine! Well, I might buy my wife some better clothes. Romilda seemed not only to have grown indifferent as to whether I liked her or not, but even to take particular pains to prove odious to me—never fixing her hair, going around in ugly mules all day long, and wearing an old wrapper that left her not a single charm of figure. Did she feel that it wasn't worth the trouble to dress decently for a husband like me? For that matter, she had never quite recovered from her long illness; and she was growing more irritable and despondent from day to day—not toward me alone, but toward everybody. Slovenliness, laziness, were the natural result of her many disappointments and the lack of any real affection on her part for me. She had taken no interest in our one little girl who had survived; because that child was a defeat for her as compared with the fine boy that had come to Oliva barely a month later—and with none of the trials and torments that had fallen to Romilda's lot. All these things—and that friction, besides, which develops inevitably when poverty, like a black cat of ill−omen, huddles in the ashes of a joyless hearth—had made married life unbearable to both of us. Would eleven thousand lire cure all that? Would eleven thousand lire resurrect a love that had been traitorously slain in its early days by the widow Peseatore? Nonsense! To America then! But why America? Why go seeking Fortune so far away, if, as it seemed, that very Fortune had halted me, almost by violence, in front of a gambling store in Nice? No! I must show some appreciation for such a courtesy—play the game. Everything or nothing! After all, ruin would leave me only where I was before. Eleven thousand lire! What was that? So, the next day, I went back to Monte Carlo, as indeed I did for twelve successive days. In all that time, I had neither leisure nor opportunity to wonder at the amazing fortune that attended me, so completely was I absorbed in the game—even to the point of utter madness. And I have not wondered much since, in view of the turn my luck finally took after favoring me so absurdly. In nine days of reckless playing I amassed a sum of money that must truly have been prodigious. On the tenth, I began to lose, and my ruin was just as phenomenal. My intuition came to fail me, as though there were not sufficient energy left in my nerves to sustain it. I was not shrewd enough—or rather, I lacked the physical strength—to stop in time. I did stop, as a matter of fact; but not of my own accord. My salvation came from one of those horrible spectacles that are not infrequent, they say, at Monte Carlo. I was entering the Casino on the morning of the twelfth day, when a gentleman I had often met about the tables came up to me in great alarm and announced more by his excited gestures than by actual words that a man had just killed himself outside in the gardens. Somehow I felt sure it was my Spaniard, and a twinge of remorse ran through me. After our talk at supper that first evening, he had refused to follow my game, and had lost consistently. Then seeing me continue my lucky play, he had finally begun to imitate me. But by this time, my own good fortune was coming to an end, and I had taken to going about from one table to another. In this way I had lost sight of him, and he had lost interest in me. As I hurried to join the crowd that had gathered about the body, I tried to imagine how he would look stretched out there on the ground, dead. However, I found, not him, but the young man with the monocle who had affected such indifference to the great sums he was losing that he always sat with his back to the wheel. He was lying in such a natural posture that it seemed he must have taken that position before firing the fatal shot. One arm was eased along his body; the other was raised to one side, the hand closed and the forefinger bent as for the clutch of the revolver. The weapon was lying a few inches away, and a little beyond, the boy's hat. His face was covered with blood, which had clotted thick in the socket of one of his eyes. Still more blood had flowed out from his right temple upon the sand of the driveway. Horseflies were already buzzing about; and one of them alighted on his face. None of the spectators seemed inclined to interfere. Finally I stepped forward, drew a handkerchief from my pocket and spread it over the poor fellow's head. The crowd was irritated rather than not at this decent act of mine: I had spoiled the spectacle if anything! Then I took to my heels and ran. I ran to the station, boarded the first train for Nice, gathered up my belongings, and started for home again. I counted the remnants of my winnings. I still had eighty−two thousand lire left. Could I ever have dreamed that before evening of that day something similar to the fate of this young man was to come to me?






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